Ipertesto
UNA LETTURA COMPLESSA
dettata da un’anima complessa per un lettore complesso.
Come iniziare a leggere Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Robert Louis Stevenson e trovarsi in un libro aperto. Come perdersi per ritrovarsi, sentirsi uno nessuno e centomila, sentirsi uomo, anziano, donna o bambino sulla spiaggia. Un’ipotesi di viaggio tra spunti letterari e un diario di bordo scritto per te.
Robert Luis Stevenson
Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde
Inizia
STORIA DI UNA PORTA
Il signor Utterson, di professione avvocato, era un uomo dall'aspetto burbero, mai illuminato da un sorriso; freddo, asciutto e impacciato nel parlare, restio ai sentimenti, magro, allampanato, trasandato e tetro; ma nonostante tutto con un che di amabile. Nelle riunioni con gli amici, quando il vino era di suo gradimento, nei suoi occhi appariva un barlume di profonda umanità, qualcosa che non riusciva mai a tradursi in parole; che si esprimeva non solo dopo il pranzo nei tratti silenziosi del volto, ma più spesso e più apertamente nelle azioni della vita. Era severo con sé stesso: quando era solo beveva gin per castigare la sua predilezione per i vini di pregio, e, pur amando il teatro, non ne varcava la soglia da ormai venti anni. Con gli altri invece dimostrava una notevole tolleranza e talvolta si stupiva, quasi con invidia, di fronte al vitalismo che li spingeva a commettere dei crimini. Nei casi più gravi era disposto ad aiutare più che a condannare. «Io sto dalla parte di Caino», era solito dire con una punta di eccentricità; «lascio che mio fratello vada al diavolo come meglio preferisce». Avendo tale disposizione d’animo, gli capitava spesso di essere l'ultima conoscenza rispettabile e l'estrema influenza benefica nella vita di individui giunti al limite della degradazione. E a costoro, fin tanto che venivano nel suo studio, mai aveva mostrato il benché minimo mutamento nel suo modo di fare.
Certo la cosa non era difficile per il signor Utterson, poiché egli era l'uomo più riservato che potesse esistere, e persino le sue amicizie sembravano basarsi su un'analoga tolleranza e bonomia. È caratteristica dell'uomo senza pretese accettare il suo cerchio di amici così come gli viene offerto dalle mani del caso, e così faceva l'avvocato. Aveva per amici i propri consanguinei o persone che conosceva da moltissimo tempo; i suoi affetti, come l'edera, crescevano col passare del tempo e non richiedevano qualità particolari nell'oggetto. Di questo tipo era il legame che lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente e noto uomo di mondo. Erano in molti a chiedersi che cosa quei due trovassero l'uno nell'altro o quali argomenti potessero avere in comune. Chi li incontrasse durante le loro passeggiate domenicali raccontava che i due non si scambiavano parola, avevano lo sguardo assente e accoglievano con evidente sollievo la comparsa di un amico. Tuttavia, i due uomini tenevano in gran conto queste passeggiate e le consideravano il momento più prezioso della settimana; e, pur di non spezzarne la continuità, non solo rinunciavano a occasioni di piacere ma resistevano persino al richiamo del lavoro.
Fu durante una di queste passeggiate errabonde che il caso li portò in una via secondaria di un popoloso quartiere di Londra. La strada, che durante la settimana era piena di fiorenti commerci, appariva piccola e tranquilla. Gli abitanti dovevano essere tutti agiati e decisi a fare ancora di più con spirito di emulazione. Dovevano investire l'eccedenza dei loro guadagni in lavori di abbellimento, poiché le facciate delle botteghe lungo la via avevano una certa aria invitante, simili a una fila di sorridenti commesse. Persino la domenica, quando le sue attrattive più manifeste erano celate e, in proporzione, vi passava poca gente, la via risplendeva in contrasto con gli squallidi dintorni come un fuoco nella foresta: con le imposte dipinte di fresco, gli ottoni ben lucidati la nota di lindore e gaiezza che diffondeva, attraeva e seduceva in un attimo l'occhio del passante. Due porte prima di un angolo della via, sulla sinistra di chi andasse verso est, la fila di botteghe era interrotta dall'ingresso su un cortile, e proprio in quel punto un edificio dall'aspetto sinistro protendeva sulla strada il suo frontone. Era a due piani, non aveva finestre, solo una porta al piano inferiore e una cieca superficie di muro scolorito a quello superiore; sotto ogni aspetto l'edificio mostrava i segni di una prolungata, sordida trascuratezza. La porta, che non aveva né campanello né batacchio, era scrostata e piena di screpolature. I vagabondi si accoccolavano nella sua rientranza e accendevano i fiammiferi sui battenti; i bambini giocavano al mercato sui gradini; gli scolari avevano provato i loro coltellini sulle modanature, e per almeno una generazione nessuno era venuto a cacciar via questi visitatori occasionali o a ripararne gli sfregi. Il signor Enfield e l'avvocato camminavano sull'altro lato di quella via secondaria, ma quando furono all'altezza della porta il primo alzò il bastone e la indicò al compagno.
«Hai mai notato quella porta?», gli chiese; e alla sua risposta affermativa aggiunse: «nella mia mente quella porta è collegata a una storia molto strana». «Davvero!», disse il signor Utterson con un leggero cambiamento di voce. «E di che cosa si tratta?».
«Ecco, è successo così», rispose il signor Enfield. «Stavo tornando a casa da un qualche posto in capo al mondo. Erano circa le tre di un buio mattino d'inverno. La mia strada passava attraverso una parte della città in cui non c'era nulla da vedere all'infuori dei lampioni: una via dopo l'altra, e tutta la gente a dormire, una via dopo l'altra, tutte illuminate come per una processione e tutte vuote come una chiesa. Alla fin fine mi ritrovai in quello stato d'animo in cui si tende l'orecchio e si comincia a desiderare la presenza di un poliziotto. Improvvisamente vidi due figure: una era un uomo piuttosto piccolo che camminava pesantemente ma di buon passo in direzione est, l'altra era una bambina di otto o dieci anni che correva a più non posso giù per una via traversa. Ebbene, amico mio, fu inevitabile che i due si scontrassero all'angolo della via, e proprio lì accadde la cosa orribile: l'uomo calpestò tranquillamente il corpo della bambina e la lasciò urlante sul selciato. A sentirla raccontare non sembra nulla, ma a vederla era una scena orrenda. Quello non era un uomo, ma piuttosto un maledetto Juggernaut. Diedi un grido di allarme, mi gettai all'inseguimento, afferrai per il colletto quel tipo e lo riportai indietro là dove c'era già un gruppo di persone intorno alla bambina che ancora strillava. Quello sembrava del tutto indifferente e non oppose alcuna resistenza, ma mi gettò un'occhiata così minacciosa che mi fece venire i sudori come dopo una corsa. Le persone che si erano raccolte intorno alla bambina erano i suoi familiari, e ben presto arrivò il dottore che avevano mandato a chiamare. La bambina non aveva nulla di grave, era solo spaventata: così disse l'aggiustaossa. E la storia avrebbe potuto finir lì. Ma ci fu una circostanza curiosa: avevo sviluppato un odio subitaneo nei confronti di quel tizio, e così pure i familiari della bambina, il che era più che naturale. Ma ciò che mi colpì fu l'atteggiamento del dottore. Era il solito medico dai modi spicci e bruschi, di età e colorito indefiniti, con un forte accento edimburghese, e impressionabile quanto una cornamusa. Ebbene, amico mio, aveva avuto la nostra stessa reazione: ogni volta che guardava il prigioniero, lo vedevo sbiancare in volto dalla voglia di fargli la pelle. Sapevo quello che aveva in mente, proprio come lui sapeva quello che avevo io; ma poiché ammazzarlo era fuori discussione, cercammo di fare quanto meglio possibile. Dicemmo a quello Juggernaut che avremmo creato un tale scandalo su quella storia da far maledire il suo nome in tutta Londra. Che, se avesse avuto degli amici o qualche credito, glieli avremmo fatti perdere, e nel frattempo, mentre ce lo lavoravamo per bene, cercavamo di tenere lontane da lui le donne che erano fuori di sé come arpie. Non ho mai visto facce così piene d'odio; e in mezzo a quel cerchio c'era il nostro Juggernaut, con una sorta di ghigno gelido, spaventato anche lui, lo si vedeva bene, ma in grado di tener testa alla situazione quanto Satana in persona.
Diario 1
In questi lunghi momenti, quando non devo lavorare, divento un’altra persona. Qualcosa mi possiede e mi trascina via, forse divide. Come separata dal mondo, mi estraneo per perdermi nelle letture che ho trovato sullo scaffale della vecchia casa di famiglia, c’è un libro dal titolo greco: διαβάλλω, quasi per caso apro la pagina e trovo esattamente quello che sto cercando, torno studentessa infervorata, appassionata. Dove ero finita in tutto questo tempo? Posso di nuovo viaggiare lontano, spostarmi da un mondo conosciuto a uno sconosciuto, da un minuto a un altro. Apro, una ad una, queste pagine come portali. Non ricordo quasi nulla di ciò che ho appena letto perché la testa ricorda altro, allora vado in cerca di altre parole che mi appartengono, che mi descrivono, che mettono contro al muro i miei demoni, le infinite vite che albergano dentro di me. Mi assale la voglia irrefrenabile di inserire la chiave e aprire la stanza successiva. Un motoperpetuo di associazioni mentali tra autori diversi, immersa nell’acqua del tempo che non scorre più. Solo una pausa per generare diari di questo viaggio che lega la mia anima più antica ad altre anime, come una ragnatela. Chi è al centro? È lì che sto andando, non posso farne a meno. Non ci faccio caso. Le previsioni del tempo annunciano una fitta nebbia, è lì all’orizzonte ma io sono incurante del mio Juggernaut.
Egli è anche जगन्नाथ Jagannātha, Signore dell'Universo. Tutti noi ne abbiamo uno.
Shrila Jagannath Das poteva danzare divinamente ispirato, nonostante fosse invalido fisicamente. Si dice che sia vissuto fino a centoventicinque anni, venerato da tutti i devoti. Jagannatha è uno dei molti nomi della divinità Krishna, dalle antiche scritture Veda indiane. La Coscienza di Krishna è tramandata per successione Disciplica, i Maestri Spirituali sono il collegamento con il Signore Supremo Sri Krishna, la distribuzione del suo essere.
Egli si mostra al suo popolo una volta all’anno prendendo corpo in una statua di legno duro di due metri cubi, due occhi enormi e un sorriso beffardo. I fedeli aspettano un anno per potere essere osservati da quello sguardo. La Ratha Yatra è una processione di carri, una processione annuale: la festa più grande e antica celebrata sulla Terra.
Darśana. Una visione sacra. Quello di Jagannath, a Puri, è uno dei più famosi templi indiani, dove si tiene la processione, seguita da più di un milione di pellegrini. Per loro è l’apparizione di Dio in persona. Sono stati gli inglesi a dare al nome di Jagannath un’accezione demoniaca. Immagina enormi carri (ratha), che si mettono in viaggio (jatra), gigantesche strutture in legno con ruote che vengono ricostruite ogni anno e vengono trainate dai devoti. La data cade durante il mese di Asadha, la stagione delle piogge di Odisha, di solito nel mese di giugno o luglio. I carri per Jagannath richiedono circa due mesi per essere costruiti, hanno un baldacchino per ospitare il Dio, sono alti dieci metri, si muovono su otto enormi ruote. Sono stati costruiti senza l’ausilio di un chiodo, secondo un antico rito tramandato nel tempo dalle famiglie di costruttori. Tutti gli artisti e pittori di Puri decorano i carri, dipingono petali di fiori e altri disegni sulle ruote, tutti aspettano che le divinità del tempio principale di Puri, Odisha, appaiano ai fedeli, si siedano sui carri decorati e si facciano trainare da questi milioni di devoti raccolti da tutto il mondo.
La processione arriva fino al tempio mentre le enormi statue di Jagannātha, Subhadra e Balabhadra guardano la folla che grida, frastornata dal suono dei gong. L’idea che Jagannatha fosse un demone prese piede anche per via dell’aspetto inquietante dell’idolo: la forma di Kṛṣṇa detta Jagannātha è, quantomeno apparentemente, meno gradevole della forma mūrti con cui viene normalmente adorato. La traduzione in inglese del termine è ambigua, in quanto si trovano soprattutto versioni dei testi sacri realizzate da indologisti coloniali, i quali hanno desiderato imporre il loro punto di vista delle antiche scritture Veda indiane, avendone timore. Ancora la propaganda coloniale inglese, ansiosa di dipingere usi e costumi induisti come «barbari» e «primitivi» raccontava che, come atto di devozione verso l'idolo che vi era trasportato, alcuni fedeli si gettassero sotto le ruote dei carri. Durante l'epoca vittoriana il termine venne poi ancora utilizzato per descrivere Satana, sempre dagli inglesi. La cultura popolare si prestò alla manipolazione, volta a creare ancora di più la disparità tra i popoli. Questo perché l’uomo contemporaneo preferisce non indagare a fondo i simboli e le credenze che pur appartengono a tutti noi. Non saprebbe spiegare gli addobbi dell’albero di Natale o l’uovo di Pasqua ai suoi figli. E così facendo, paga lo scotto di una grave mancanza di introspezione, rimane cieco al fatto che, pur con tutta la sua razionalità e la sua efficienza, forze non controllabili lo tengono in pugno, i suoi demoni non sono scomparsi: hanno solo cambiato nome. L’uomo resterà in uno stato d'agitazione incessante attraversato da vaghe apprensioni, demoni, complicazioni psicologiche, un bisogno insaziabile di compensazione, un pesante fardello di nevrosi.
Una strada senza uscita che si radica fin dalla più tenera infanzia e adolescenza.
Quale avrebbe dunque potuto essere la ragione di questa curiosa disparità, mi domandavo mentre disegnavo ruote di carro sui foglietti di carta forniti dal contribuente inglese per tutt’altri scopi. Come mai, a giudicare da questo catalogo, le donne sono infinitamente piú interessanti per gli uomini di quanto questi non lo siano per le donne? Un fatto assai curioso, a quanto sembrava, e cosí la mia mente cominciò a vagare cercando di immaginare come debba essere la vita di uomini che passano il tempo a scrivere libri sulle donne; mi chiedevo se fossero vecchi o giovani, sposati o scapoli, se avessero il naso rosso o la gobba – in ogni caso era vagamente lusinghiero sentirsi oggetto di una tale attenzione, posto che questa non venisse elargita unicamente da invalidi e da infermi – e dunque continuai a meditare finché le mie frivole riflessioni furono interrotte da una valanga di libri che scivolarono sul ripiano di legno davanti a me. Adesso cominciavano le difficoltà. Lo studente che è stato avviato alla ricerca in un luogo come Oxbridge senza dubbio è in possesso di un metodo che gli consente di guidare il suo problema oltre ogni distrazione fino a che questo va a infilarsi nella soluzione adeguata come una pecora nella porta dell’ovile. Lo studente seduto accanto a me, per fare un esempio, che copiava senza sosta dalle pagine di un manuale scientifico, ogni dieci minuti circa estraeva, ne ero certa, qualche pura pepita di minerale essenziale. I suoi piccoli grugniti di soddisfazione erano molto indicativi. Ma se, per disgrazia, la persona in questione non ha ricevuto alcuna preparazione universitaria, quel problema, lungi dall’essere condotto al riparo, nell’ovile, fugge via come un gregge terrorizzato inseguito da un intero branco di segugi, di qua e di là, alla rinfusa. Professori, presidi, sociologi, religiosi, narratori, saggisti, giornalisti, uomini senza altra qualifica professionale tranne il fatto di non essere donne, si misero a dare la caccia a quella mia unica e semplice domanda – Perché le donne sono povere? – finchè questa si trasformò in cinquanta altre domande; e poi le cinquanta domande, impazzite, fecero un salto nella corrente e furono trascinate via. Ogni pagina del mio taccuino era coperta di appunti buttati giú in fretta. Per darvi un’idea dello stato d’animo in cui mi trovavo, ve ne leggerò alcuni, dopo aver chiarito che la pagina si intitolava semplicemente DONNE E POVERTÀ, a lettere maiuscole; ma quel che seguiva era qualcosa come: Condizioni nel Medioevo di, Costumi nelle Isole Figi delle, Adorate come divinità da, Piú deboli in senso morale di, Idealismo delle, Maggiore coscienziosità delle, Indigene dei Mari del Sud, età puberale nelle, Fascino delle, Offerte in sacrificio a, Ridotte dimensioni cerebrali delle, Inconscio piú profondo nelle, Minore quantità di pelo corporeo delle, Inferiorità mentale, morale e fisica delle, Amore per i bambini nelle, Maggiore longevità delle, Maggiore debolezza muscolare delle, Intensità affettiva delle, Vanità delle, Istruzione superiore delle, Opinioni di Shakespeare sulle, Opinione di Lord Birkenhead sulle, Opinione del Decano Inge sulle, Opinione di La Bruyère sulle, Opinione del Dr Johnson sulle, Opinione di Oscar Browning sulle, ... Qui avevo preso fiato e avevo aggiunto, per la verità, a margine: Perché Samuel Butler dice che “Gli uomini saggi non dicono mai quello che pensano delle donne?” Si direbbe invece che gli uomini saggi non parlino mai d’altro. Però, continuai, appoggiandomi allo schienale della sedia e alzando lo sguardo verso la grande cupola nella quale io ero un solo benché a questo punto ormai stremato pensiero, la cosa davvero deplorevole è che gli uomini saggi non pensano mai la stessa cosa sulle donne. Ecco, ad esempio Pope: “La gran parte delle donne non ha alcun carattere”. Ed ecco La Bruyère: “Les femmes sont extrêmes; elles sont meilleures ou pires que les hommes”. Una precisa contraddizione da parte di due osservatori attenti che erano contemporanei. Sono in grado di venire istruite oppure non lo sono? Napoleone credeva che non lo fossero. Il Dr Johnson pensava il contrario. Hanno l’anima oppure non ce l’hanno? Alcuni selvaggi dicono di no. Altri, al contrario, sostengono che siano esseri quasi divini, e per questa ragione le venerano. Alcuni saggi sostengono che le donne posseggono un cervello piú superficiale; altri che hanno una coscienza piú profonda. Goethe le stimava; Mussolini le disprezzava. Dovunque si volgesse lo sguardo, gli uomini pensavano alle donne e ci pensavano in modi diversi. Impossibile trovare il bandolo della matassa, conclusi, lanciando occhiate d’invidia al lettore seduto accanto a me, il quale andava facendo riassunti ordinatissimi, spesso indicati in alto con una A oppure una B o una C, mentre il mio taccuino rigurgitava degli scarabocchi piú disordinati e di annotazioni contraddittorie. Era deprimente, era sconcertante, era umiliante. La verità mi era colata via tra le dita. Sfuggita sino all’ultima goccia. Non potevo assolutamente tornarmene a casa, riflettevo, e come unico contributo serio allo studio del rapporto tra le donne e la narrativa aggiungere il fatto che le donne hanno meno peli sul corpo rispetto agli uomini o che l’età puberale tra le abitanti delle isole dei mari del sud è nove anni – o forse novanta? Persino la grafia, colta da perplessità, era diventata indecifrabile. C’era di che vergognarsi a non avere niente di piú ponderoso o ragguardevole da esibire dopo una intera mattina di lavoro. E se non ero in grado di afferrare la verità sulla D. (come, per amore di brevità, ero arrivata a chiamarla) nel passato, perché mai preoccuparsi della D. nel futuro? Sembrava una autentica perdita di tempo consultare tutti quei signori che si specializzano sulla donna e l’influenza che ella esercita su quale che sia l’argomento di cui si tratta – politica, figli, salario, moralità – per quanto numerosi e dotti essi siano. Si poteva fare benissimo a meno di aprire i loro testi. Ma mentre riflettevo, inconsapevolmente, nella mia irrequietezza, nella mia disperazione, avevo tracciato un disegno, là dove, come faceva invece il mio vicino, avrei dovuto scrivere una qualche idea conclusiva. Avevo disegnato una faccia, una sagoma. Erano la faccia e la sagoma del Professor von X tutto intento a scrivere la sua monumentale opera intitolata Dell’inferiorità mentale, morale e fisica del sesso femminile. Nel mio disegno non era affatto un uomo che potesse piacere alle donne. Aveva un fisico corpulento, una enorme pappagorgia, e a bilanciare la quale c’erano due occhi piccolissimi; la faccia era molto rossa. L’espressione del viso suggeriva l’idea che l’uomo stesse lottando a fatica sotto l’effetto di una qualche emozione che lo induceva a flagellare la carta con la penna, come se man mano che scriveva uccidesse qualche insetto ripugnante, e anche dopo averlo ucciso la cosa non lo acquietasse, ma dovesse continuare ad ammazzarlo; e che anche allora, una qualche ragione di rabbia e irritazione permaneva. Poteva darsi che fosse colpa della moglie? Mi chiedevo guardando il mio disegno. Forse si era innamorata di un ufficiale di cavalleria? Forse l’ufficiale di cavalleria era snello ed elegante e vestito di astrakan? O forse una bella ragazza aveva riso di lui – tanto per usare la teoria freudiana – quando era ancora in culla? Perché neppure nella culla, pensavo, quel professore poteva essere stato un bel bambino. Quale che fosse la ragione, il mio disegno lo faceva apparire molto arrabbiato e molto brutto, mentre scriveva quel suo enorme libro sulla inferiorità mentale, morale e fisica delle donne. Disegnare era un modo ozioso di concludere una infruttuosa mattinata di lavoro. Eppure è proprio nella pigrizia, e nei sogni che a volte viene a galla la verità sommersa. Un esercizio assai elementare di psicologia, da non nobilitare chiamandola psicoanalisi, mi fece capire, dopo aver dato un’occhiata al mio taccuino, che il ritratto del professore arrabbiato era stato buttato giù in un impeto di rabbia. La rabbia si era impossessata della mia matita mentre io sognavo. Ma che c’entrava la rabbia? Interesse, confusione, divertimento, noia – erano tutte emozioni che avrei potuto rintracciare e chiamare per nome man mano che si succedevano l’una all’altra nel corso di quella mattina. Era possibile che la rabbia, quella serpe nera, si fosse nascosta in mezzo a loro? Sì, rispondeva il disegno, era andata così. Senza possibilità di errore mi rimandò a quel particolare libro, a quella particolare frase, che avevano risvegliato il demone; e cioè l’affermazione fatta dal professore circa l’inferiorità mentale, morale e fisica delle donne. Il cuore aveva avuto un soprassalto. Le guance si erano fatte bollenti. Ero arrossita dalla rabbia.
Virginia Woolf.
Una stanza tutta per sé
Vi ricordate Infanzia e adolescenza del conte Tolstoj? Il protagonista è un ragazzino che non è come tutti gli altri, neppure come suo fratello Volòdia. Egli ha appena dodici anni, ma nella sua testolina si agitano pensieri che non sono della sua età. Egli coltiva appassionatamente i suoi sogni e sa che bisogna tenerli celati. Pudore ed orgoglio gli vietano di parlare. Egli invidia il fratello e lo considera assai superiore a lui, specialmente per la sua avvenenza, ma nel profondo della sua coscienza egli sente che il fratello gli è inferiore in tutto. Egli considera questo pensiero una bassezza e tenta costantemente di cacciarlo. Si guarda allo specchio e si convince di essere bruttissimo e che nessuno potrà mai amarlo... Insomma, è un ragazzo eccezionale che non appartiene nemmeno al tipo del ragazzo di buona famiglia della media e alta nobiltà della quale - erede di Pùsckin- il Conte le Tolstoj è stato il poeta e lo storico. Ed ecco che nella grande casa a vita di Mosca si raduna gente: è l’onomastico della sorella del protagonista; ci vengono grandi e bambini. Incominciano i giuochi, le danze; il nostro eroe è goffo, balla male, vorrebbe distinguersi con il suo spirito, ma non ci riesce - mentre, a farlo apposta, ci sono tante belle ragazzine - e lo assale la sua eterna ossessione di essere inferiore a tutti. Egli decide, disperato, di sbalordire con un gesto l’assemblea. Fuori di sé, mostra la lingua al suo precettore e lo colpisce con un pugno. Ora tutti sapranno come lui, ha fatto vedere di che cosa è capace. Lo trascinano vergognosamente fuori e lo mettono in castigo in uno stanzino. Sentendosi per sempre perduto, il ragazzo fantastica: sogna di essere fuggito da casa, di essersi arruolato nell'esercito, d’uccidere molti turchi e di cadere crivellato di ferite. Vittoria! Dov'è il nostro eroe, il nostro Salvatore? Gridano tutti. Lo trovano, lo abbracciano. Eccolo a Mosca, in carrozza sul viale Tverskòi, con il braccio al collo e incontra l'imperatore... D’un tratto il pensiero che il precettore sta per entrare con la frusta disperde come nebbia i sogni. Egli cerca la ragione per la quale tutti lo detestano: egli è certamente un trovatello e non glielo vogliono dire... La nuova fantasia lo investe; eccolo che muore in quello stanzino e quando gli altri ci entrano lo trovano privo di vita. "Povero ragazzo" piangono tutti"
"Era un bravo ragazzo". "Siete voi che l'avete fatto morire", dice il padre al precettore... e le lacrime soffocano il giovinetto. Questa storia finisce con la malattia del ragazzo, febbre e delirio. Uno studio psicologico molto serio sull’ anima infantile, scritto in modo stupendo. L’ho raccontato con uno scopo. Ho ricevuto una lettera da K... nella quale mi si descrive la morte di un fanciullo, anche lui dodicenne, morte che ha forse qualche parentela con il racconto di Tolstoj
Ecco la lettera:
«Il giorno 8 novembre si seppe in città che un ragazzo di 12 o 13 anni, alunno del ginnasio, era improvvisamente morto. Ecco quanto era accaduto: quel giorno il professore aveva interrogato il ragazzo e quest'ultimo non sapeva la lezione, per la qual cosa fu punito con l’ordine di rimanere al ginnasio fino alle cinque del pomeriggio. Il ragazzo bighellonò per le classi, finché, issatosi sul davanzale di una finestra, precipitò giù, dal quinto piano, uccidendosi sul colpo. Il bidello che faceva pulizia al piano di sotto lo vide cadere e corse ad avvertire il Preside, poi scese in strada e portò su il corpo del ragazzo. Come era avvenuta la disgrazia? Era stato un momento di disperazione per il castigo, o un caso? Il ragazzo non aveva mai dimostrato un carattere violento; in generale studioso abbastanza, soltanto da quel professore aveva avuto qualche voto basso, cosa per la quale era stato castigato... Il padre, si diceva, era molto severo; il fatto avvenne nel giorno onomastico del ragazzo e lui forse aveva entusiasticamente sognato il suo ritorno a casa accolto festosamente dalla mamma, dal babbo, dai fratellini e dalle sorelline... Invece doveva rimanere solo, in un edificio vuoto ad annoiarsi, a soffrire, a pensare, paventando l’ira del padre, l’umiliazione, la vergogna del castigo che forse a casa gli sarebbe stato inflitto. Egli vuole distrarsi da quei pensieri e sale sulla finestra, sporgendosi troppo... Che pena fa quel povero ragazzo, che pena fa anche il Preside nella cui scuola è avvenuta una simile sciagura! Che cosa avranno pensato i compagni di quel poveretto supponendo che il castigo avesse provocato la disgrazia? Non si esagera un po' a dare tanta importanza ai voti? Non c'è per caso troppo formalismo, troppo troppa arida insensibilità nell’ educazione dei giovani?»
Certamente il ragazzo il cui giorno onomastico fu anche quello della sua morte fa pena. Ma io non intendo dilungarmi sulle supposizioni relative alla disgrazia. Di castighi come quelli se ne danno spessissimo e non per questo i ragazzi si buttano tutti dalle finestre. Io ho citato il racconto di Tolstoj per la somiglianza dei due casi: il ragazzino sembra aver perduto la testa non perché temesse l'ira del padre ma per l'orrore dei suoi pensieri e della sua solitudine: “Perché tutti mi detestano?”. Egli ha tentato di fuggire sé stesso sporgendosi imprudentemente dalla finestra, disprezzando il pericolo e cercandolo addirittura, tormentato dagli interrogativi della sua coscienza, dalla sua sensazione di essere nulla, dal desiderio appassionato da essere compianto. Tutti questi sentimenti li provava anche il ragazzo chiuso nello stanzino descritto da Tolstoj. L'unica differenza è quella morte dall’uno sognata, dall'altro veramente cercata. Non voglio del resto sostenere che si tratti di un suicidio. Certamente però la vita dei ragazzi è piuttosto trascurata in Russia, essa non ha i suoi osservatori e nemmeno uno storico. La vita della società elegante così sovente descritta dai nostri letterati non è che un frammento insignificante della vita russa. Chi sarà lo storico dell’altra vita? Da noi, certamente, la famiglia va dissolvendosi e con essa si dissolve la vita sociale. Tutto questo ha origini nella difettosa educazione della gioventù.
Fëdor Michajlovič Dostoevski
Diario di uno scrittore
Cerca nel testo: vita sociale
Diario 2
Chiusa nella mia stanza cerco solo di sfuggire. Si dissolve la vita sociale e io sono sempre più preda di me stessa, la mente continua a vagare come a cercare di entrare in qualche nuovo ospite, ma trova sempre e solo il mio corpo. Come posso sfuggirmi? Il mio demone è buono o crudele? Si agitano i pensieri in me fin da quando ero piccola, pensieri ereditati e solo apparentemente generati dalla mia testa ancora avvolta nell’infanzia. Se chiudo negli occhi sento le anime e i loro sogni che si risvegliano: è qui che il sommerso risale in superficie. Eppure oggi non mi soffermo, non rimango abbastanza, non valuto le conseguenze, un demone ne genera un altro, io rotolo giù dalla collina incessantemente, e cerco di respirare l’ossigeno dove ne è rimasto ancora per me. È così che scanso l’angoscia, la paura. Tengo a bada il dolore. Genero un’infinità di ideazioni. E mi discosto dalla sofferenza collettiva. Ho sempre avuto pietà, un’infinita, materna capacità di consolare. Ho sempre provato ἐν πάθεια. Fino a un certo punto il pensiero o la vista dell’infelicità impegnano i nostri migliori sentimenti, ma, oltre a un certo punto, dato che la pietà è sofferenza, quando si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo di sbarazzarsene. Chi l’ha detto? Cosa significa? Forse significa che volgiamo lo sguardo altrove. Restiamo indifferenti. Anche alla malinconia. Poco fa ho visto un bambino bellissimo in spiaggia, non so se mi assomiglia ma ho pensato: vorrei entrare nella testa di quel bambino che corre sulla sabbia umida dopo la pioggia, quel bambino che si diverte senza accorgersi degli enormi ammassi di nuvole cineree sopra di lui. Ignora che il cielo ha un aspetto di sventura. Non lo so se è uguale o diverso da me. Se anche lui, in realtà, dietro l’apparenza, ha paura. Chissà cosa prova. Io ho provato solo la mia vita in prima persona, ma ora voglio di più. Vorrei inserirmi nella testa di un altro essere umano. Spostare il baricentro fuori da me. Forse dovrei provare con un uomo, come quello che sta camminando mestamente verso il bar vicino alla stazione. Ha qualcosa di diverso da me negli occhi: chissà come vede lui un sasso, sarà uguale a come lo percepisco io? Chissà cosa significa diverso. Diverso da chi? Lui da chi è diverso? C’è un metro che vuole equiparare ogni essere umano a un insieme ben definito. Per tranquillizzarci, per farci rientrare in uno scaffale della libreria. Belli stretti, tra il dizionario e il libro di cucina etnica. Caselle che a niente servono se non a sedare la nevrosi sociale e collettiva dell’ignoto per nascondere la nostra precarietà. Dare dei nomi. Provare a semplificare. Riassumere. Mentre il Tempo ci divora. Gli istanti.
La paura che gela le mani quando ci affacciamo per un attimo alla finestra aperta, quella che dà verso fuori, la paura che il vuoto imprendibile ci risucchi giù. Non esiste nessun catalogo, sono convenzioni rassicuranti quanto vacue. Come il ragazzo russo. L’immenso sforzo di comprendere l’essere umano. Quella consapevolezza negata che noi non possiamo pretendere di conoscere e controllare nessun tipo di vita, tantomeno quella umana. Tantomeno la nostra. Così pretendiamo di stabilire gradi di dominanza. Per esempio: io a che livello appartengo? E tu? Su che piolo della scala sto, io, secondo te? Tu mi vedi, come la voce che senti uscire da me e che io ascolto attraverso le ossa, senza comprenderla. Se io divento te, come nella lettura di una storia di un libro, di un romanzo, potrò comprendermi nella mia immobilità per intero. Ho bisogno di diventare un demone per infilarmi in un altro da me. Mi vedi? Qual è la mia posizione nelle gerarchie del potere? Dove incontro il mio limite? Non voglio parlare di me, voglio essere dentro quell’uomo, ad esempio, capire perché l’esistenza lo sta soffocando e guardarmi specchiata in lui, indagare nel mio stagno, frugando tra le alghe a portata di mano, affondando nelle mie acque putride che giacciono ferme. Forse così soltanto, un giorno, per osmosi (se si dice così) potrò giungere, se non all'oceano, almeno al mare. È per questo che mi rivolgo a te.
E tu? Tu cosa provi? In questo momento, cosa provi?
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Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine innato e incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima. Lasciai cadere il proposito di andare alla chiesa della Santissima Trinità quel mattino. Mi sentivo in qualche modo indegno dopo le cose che avevo visto. Mi incamminai verso casa pensando a cosa avrei fatto con Bartleby. Alla fine mi risolsi su quanto segue: il mattino dopo gli avrei rivolto alcune pacate domande sul suo passato, ecc. e, se avesse rifiutato di rispondere in modo aperto e senza riserve (presumevo che avrebbe preferito di no), gli avrei allora dato una banconota da venti dollari oltre a quanto già eventualmente gli dovevo, dicendogli che i suoi servizi non erano più richiesti, ma che, se in qualunque altro modo avessi potuto aiutarlo, sarei stato felice di adoperarmi in tal senso; soprattutto se avesse desiderato ritornare là dove era nato, non importa dove fosse, avrei volentieri contribuito alle spese. Inoltre, se, una volta arrivato a casa, in un momento qualsiasi si fosse trovato bisognoso di aiuto, una sua lettera avrebbe certamente avuto risposta. Giunse il mattino successivo. «Bartleby», dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento. Nessuna risposta. «Bartleby», dissi in tono ancora più gentile, «venga qui. Non le chiederò di fare nulla che lei preferisca non fare... desidero soltanto parlarle». A queste parole silenziosamente scivolò fuori. «Vuole dirmi, Bartleby, dove è nato?» «Preferirei di no». «Non vuole raccontarmi niente di sé?» «Preferirei di no». «Quale ragionevole obiezione ha per non parlarmi? Ho nei suoi confronti sentimenti amichevoli». Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva gli occhi fissi sul busto di Cicerone, dietro alla mia sedia, circa a sei pollici sopra la mia testa. «Che cosa mi risponde, Bartleby?», proseguii dopo aver aspettato una sua risposta per un bel po' di tempo, mentre il suo volto rimaneva immobile, salvo un tremore quasi impercettibile delle labbra pallide e sottili. «Per il momento preferisco non rispondere», disse e si ritirò nel suo eremo. Fu una mia debolezza, lo confesso, ma in quel momento i suoi modi mi irritarono. Non soltanto mi sembrava che nascondessero un certo pacato disprezzo, ma la sua caparbietà mi pareva ingratitudine, considerando gli innegabili benefici e l'indulgenza che aveva avuto da me. Ancora una volta me ne rimasi lì seduto a rimuginare su quello che avrei dovuto fare. Mortificato com'ero per il suo comportamento, e altrettanto risoluto a licenziarlo quando ero arrivato in ufficio, avvertivo un timore superstizioso che mi si agitava in fondo al cuore, vietandomi di mettere in atto quel proposito, dandomi del mascalzone se avessi osato proferire una sola parola amara contro di lui, il più derelitto degli uomini. Da ultimo, avvicinando con piglio confidenziale la mia sedia alla sua dietro il paravento, mi sedetti dicendo: «Bartleby, non importa se non mi racconta la sua storia, ma mi consenta di supplicarla, da amico, di adeguarsi per quanto possibile alle abitudini dell'ufficio. Mi prometta che, domani o il giorno appresso, aiuterà a controllare i documenti: in breve, mi prometta che fra un giorno o due comincerà a essere un po’ ragionevole. Dica di sì, Bartleby». «Per il momento preferirei non essere un po' ragionevole», fu la risposta soavemente cadaverica.
Herman Melville
Bartleby, lo scrivano: una storia di Wall Street
Cerca nel testo: abitudini dell'ufficio
Diario 3
Chi sei? Cosa stai facendo in questo momento? Sono una forza interna a te: divido, e fratturo l'armonia, la disturbo. O forse sono un buon diavolo, quando in modo popolare intendi parlare del tuo lato più umano.
Siediti. Sei già seduto? Stai guardando, stai ascoltando, stai respirando, questo lo capisci anche da solo, ma cosa aspetti? Non succede nulla? Mi sto già annoiando. Ho un’idea: potresti essere in ufficio. Come ogni giorno. Con le tue abitudini dell’ufficio. O a casa tua. Ma diciamo che di solito sei in ufficio. E oggi non sei molto ragionevole, ti si legge chiaro come un tatuaggio sulla pelle. C’è poca luce intorno, pochi suoni interessanti, magari ti succederà qualcosa di inspiegabile, cosa ti hanno promesso, prima di venire a lavorare in questo ufficio? Magari anche niente. Chiudi gli occhi. Davvero. Anche gli altri li hanno chiusi, non c’è nulla da vedere, chiudi gli occhi, dormi. Per addormentarsi bisognerebbe essere stati svegli prima, invece tu a quanto sembra, continui nel tuo abituale stato ipnotico. Mi trovo proprio dietro alle tue sopracciglia e vedo la realtà che vedi tu. Posso diventare una tua emozione incontrollata, stai attento. Portami rispetto. D’accordo. Sei in una mensa, adesso. Cosa mangi? Delle patate e un po’ d’ arrosto. Volevi le lasagne ma quello prima di te se l'è portate via e l'ultimo piatto è stato nascosto per qualche superiore che lo avrà prenotato. Il sopruso del potere. Vuoi che scateni la tua rabbia per la disparità tra te e i tuoi superiori? Faremmo bene, perfino in questo bar, la segretaria che sta mangiando a due tavoli da te, non ti saluta, non sa chi sei, ha rimosso il tuo ricordo, ma non è un fatto personale. È solo perché odia il suo ruolo. Non sa più il suo nome. Non sa più che cosa è appena successo. Una condizione comune, non ti pare? Comune alla tua, forse? Vuoi? Che ti porti a correre fino al fiume per rivolgere contro te stesso la violenza che hai dentro? No. Ti lascerò ancora un po’ nel tuo non vivere eterno. Ti siederai accanto a due colleghi che parlottano senza capire cosa dicono, come se tra voi ci fosse una parete d'acqua, come se tu fossi solito respirare acqua e loro ossigeno. Pensa al fiume, metti le mani in tasca, ci sono dei sassi. È l’eredità. Gli occhi dell’idolo ti osservano. Ma non è ancora il momento, rimani con noi e con loro. L’altro, gli altri. Ogni tanto li osservi. Lo so cosa pensi. Vergognati. Il tempo ti sta logorando nel corpo e nella mente. Sei sempre più vecchio e pensi da vecchio anche se non sei un vecchio. Sei logorato. Ingiustizie, prevaricazioni, eccentricità fastidiose, insolenze; una vita di amore non corrisposto, le lungaggini della burocrazia, l'ingiustizia, le offese. Basterebbe poco: un coltello piantato nel cuore, girato due volte. Come un cane, diresti fissando una finestra dalla cava di pietra. Vergognati. Lo ha già detto un uomo a Praga. Sai solo ripetere e pensi di poter fermare il tempo. Ci hai rinunciato quasi una volta, poi ti sei spaventato e hai deciso di entrare nell’ abisso circolare del rimando. Rimando letterario, rimando a domani. Les jeux sont faits.
Invece l’ora che trascorri si scandisce da sola, senza di te, sei sempre fermo ed è uno stato comune a tutti. Lo stomaco ha esaurito la sua capienza senza aver placato la sua fame, sei insofferente. E quando ti immagini la prossima ora che arriverà in un futuro sognato, non riesci a concepirne l’esistenza. Forse tutte le volte la tua ora di vita è quella in meno, che viene tolta tra l’ora solare e quella legale. Non credi possibile essere in questo tic d’orologio. Questo che c’è adesso ed è vero. Parteciperanno lancette, fuochi scoppiettanti, aria nella stanza, persino acari striscianti sotto i tuoi piedi, ma non tu.
Ciò che ti differenzia dall’animale ti ha intrappolato per sempre nella non presenza alla vita. Tu sei altrove, sempre, confinato in una istituzione totalitaria che regna nel perimetro della tua mente. Schemi. Sempre gli stessi. Un mal di pancia risveglia qualcosa di te che non può non rispondere al richiamo fisiologico del dolore, allora tu stai con quello, accanto alla sofferenza trovi un barlume di essere. Ti riconosci nel dolore. Finalmente sei il dolore, almeno sei qualcosa, e un nuovo secondo trascorre nel sentire male. Il dolore ti fornisce una identità, un appiglio, una scusa. Seppur umiliante e ridicola. Ecco tu sei esattamente quella signora inglese che muore con gli altri anche se non ha mangiato il cibo avariato. Vai perché si deve andare e segui il gregge.
Se ti sganciassi dalle catene, cosa faresti? Resteresti fermo sulla soglia della porta a guardare l’immenso mondo che c’è fuori da te e rimarresti passivo? Hai ancora tra le mani il mouse dell'ufficio, lo guardi e lo metti nella tasca. È solo un’illusione. Vorresti trascendere i limiti dell’esperienza individuale, diventando chiunque e trovandoti ovunque e non riesci invece a uscire dal quadrato dei tuoi luoghi conosciuti. Apro un po’ il raggio della luce su di te, giusto per mostrarti la situazione: ora sei seduto su uno sgabello di un bar. Una donna ti serve da bere da un bancone, vedi solo un piccolo frammento di lei. Coraggio. Ora puoi partecipare al pensiero collettivo. Volteggiare. Come un bambino. Indifferente al nostro cielo che ha un aspetto di sventura.
Era del cibo che ti è piaciuto, non ti è piaciuto, poco importa, lo stai digerendo, lo hai digerito ora hai fame di nuovo, ma non ci sei, non sei in quella digestione, tu stai in un bar, accanto a un calice di alcolico, un po’ imbambolato, cerchi di fuggire l’orrore con la sensazione di grazia etilica. Provi a nasconderti sotto lo sguardo compiacente di tante persone, tutte quelle che conosci, altre che non conosci. Sorridono. Inspira, per favore, inspira forte. Dove vai? Ti vorremmo con noi, fermo, in aiuto al processo vitale di trasformazione del cibo, invece non ci sei. Trilla un campanellino che ti ricorda il suono dei treni merci alla stazione del paese al mare, quando da piccolo ammiravi lo spettacolo della velocità del motore metallico. È vero? Te lo ricordi quel treno in corsa? Pensaci bene, che stupore! Ricordi le gambette con cui correvi sull’asfalto? E quelle scarpe che non sapevi come si allacciavano. Ti ricordi di quando le hai allacciate per la prima volta? Il nodo ti veniva un po’ molle, ma volevi far vedere che eri riuscito da solo. Sei diventato grande. Ti rendi conto? E quante volte pensi che sei diventato anche un po’ vecchio? E cosa ti soddisfa? Hai fatto un bilancio? Ti è servito l’amore della madre a farti essere sereno e nutrito? Il solo pensiero della gioia passata ad aspettare il treno ti aggroviglia la gola e il tuo io si sfalda in pulviscolo. Non lasciarlo volare via, ti serve, non ne avrai un altro. Quanto daresti ora per la formula della serenità! Vivere una vita tranquilla, meravigliosa, serena, senza troppi problemi. Una vita qualsiasi. Non importa quale sia il tuo sogno di gloria, quale successo effimero tu stia inseguendo. Non lo butteresti via per essere soddisfatto di quello che hai giorno per giorno? Lo frantumeresti. Se lo sapessi. Tu devi tornare bambino. Accoccolato tra le braccia di tua madre. Ti sei fatto male?
Che cosa ti manca nella vita? Prendi un ricordo inconcludente come segno esistenziale: c’è il treno, la stazione, un anziano signore con un fazzoletto legato attorno alla testa che ti osserva, tu ti giri e corri verso di lui. “Quando passa il prossimo treno?”
“Non lo so, non si può mai sapere in questa stazione abbandonata. Il campanello ci avvertirà, dobbiamo solo aspettare”. Non c’è riempitivo. Non esiste alcuna proiezione abbastanza soddisfacente, non c’è nemmeno un ricordo che abbia un qualche significato preciso. Per questo ti soffermi a guardare una tua mano, ne vedi lo scheletro in trasparenza, contrastando la definizione della pelle con la sfumatura incerta del fuoco nel camino. Senti un calore, pensi a tutte le mani che hai conosciuto, non capisci come una mano, la mano del nonno che un giorno sarà ossa immobili, possa contenere la sua vita e in potenza, la tua stessa vita. Quella che ha generato tuo padre e poi te. Vita: prima di quel tic e dopo quel tac che la lancetta ha già scattato, senza che nulla sia cambiato. Invece... “improvvisamente” niente. È tutto uguale a prima.
Una donna, nel bar, ti ha avvicinato e ti ha messo le braccia al collo. Sembra molto felice di vederti. Rispondi con gioia. Fingi bene: non ci accorgiamo che stai simulando. La donna ti spiega che deve andare in bagno, intanto le ordini da bere un succo di frutta. La gratificazione non fa per lei.
E torni a incupirti. Forze estranee, estranei, esterni, gente che non sei tu, gente che non sai.
Interferenti, connessioni e caos, un oceano di impulsi che ti rintrona. Nessun significato. Ti bombardano di informazioni ma ti addormentano.
Li odi. Perché ti fanno dipendere da loro, sia quando ti cercano che quando ti ignorano. Comunque, non puoi far altro che detestarli e sei sempre più convinto che sia un modo per dimostrare la tua esistenza. Ti sbagli, invece detesti, ma non sei.
Dov’è situata la tua coscienza? Annebbiata da abitudini analgesiche, dorme il sonno profondo procurato da un efficace stato di ipnosi che chiami vita. Surrogata.
Sei indotto a reagire, ma non sei mai mosso dal tuo io. Ogni tua azione e movimento interiore ed esteriore sono frutto di forze esterne a te, dalle quali dipendi, come il caldo del tuo braccio sinistro dipende dal fuoco del camino.
Ti emozioni. Sì, è vero, questo te lo si deve riconoscere. Un interesse romantico per la vita tu ce l’avevi. Una sensibilità feroce, che ti sei occupato di sopprimere appena hai potuto, come Democrito che si è accecato per restare concentrato solo su sé stesso.
È per quello che ora provi un profondo e mortale risentimento. Soffri di insofferenza. La tua insofferenza ti porta a vagare in cerca di scuse rincuoranti che non scalderanno mai, come la fiamma che accende il legno secco, il gelo che ti calcifica le vene.
Vendetta. Oggi hai rubato qualcosa, sentendoti eccitato, non se ne sono accorti. Una pinzatrice, delle matite. Non hai potuto raccontarlo a nessuno e comunque non lo sai, ma sei stato compatito.
Bevi? Il bicchiere vuoto ti viene ritirato dalla barista, te ne darà un altro. Nello stesso bar il principale e il suo collega si avvicinano a te, ti hanno trovato, ma dove eri sparito? Vogliono congratularsi.
E sono pacche sulle spalle: qualcosa che stai dicendo sembra interessarli molto. Qualcosa che hai fatto li ha entusiasmati. Adesso sei felice. Ti sono riconoscenti, hai dato un consiglio vitale per l’azienda. La segretaria ti ha dato l’invito per una cena di lavoro tra un selezionato gruppo di colleghi e finalmente ne fai parte. È la prima volta che si ricorda di inserire il tuo nome in una lista di vip. E invece no. Ora ricordi. Sei andato via ma nessuno si è accorto che mancavi. Lo stomaco. Ti invade una rabbia che si sgonfia in una risata burrascosa.
Ora il dolore delle tue viscere si è placato, forse lo stomaco ora non è più dolorante, è diventato nuovo, ti terrà in vita. Permetterà ai tuoi polmoni di respirare, al cuore di pulsare e al sangue di attraversarti il corpo, tuttavia non può, neppure lui, carico di quel povero cibo che hai divorato, non può e non potrà mai farti essere.
Tutta la gran fatica che stai soffrendo rinchiuso dietro un sipario che non si aprirà mai, non è minimamente paragonabile alla leggerezza con cui ti lasciavi rapire dal fischio del treno, mentre l’anziano aspettava pazientemente che tu fossi stanco della giornata che volgeva al termine. Al termine, come la sua vita che lentamente si avviava verso l’infarto, mentre la tua iniziava a promettere un futuro di successive osservazioni meravigliose. Hai sacrificato ogni cosa per te stesso e la tua assenza in questo momento. Hai fatto di tutto per rifiutare di essere in balìa dello stesso potere che controlla la vita umana, perché non sopportavi che potesse interrompere la tua esistenza. Non essendoci, non puoi smettere di esserci. Non vivi e non puoi morire. Fai tutto quello che puoi per sfidare il terrore che nutri nei confronti della morte. Tu la sfidi, cercando di essere altrove quando le circostanze esterne cercano di toccarti, i sentimenti di renderti debole, la frustrazione di avvelenarti. Il terribile è tutto intorno a te.
Il risultato di tutto questo è ancora più paura. Hai paura. L’ombra. Il tessuto con cui hai preparato la tela della tua vita è l’ombra. Ti ci sei ricoperto da capo a piedi. Invischiato come una mosca in una tela di ragno. È per questo che li detesti: ragno e ragnatela. Hai cercato la scorciatoia ma non ha funzionato. La tua trappola ti avvolge. La lavi, la stiri, la rinnovi, ma è sempre la stessa trappola. Scivoli dalla sfiducia all’arroganza, senza sostare a metà percorso. Un attimo prima sei in cima allo scivolo un attimo dopo sei arrivato giù. Come un bambino. È solo che dovresti essere cresciuto, o almeno gli anni hanno agito sul tuo corpo, dovresti essere diventato adulto. La natura del mondo è la tragicità della realtà. La natura del mondo è la lacerazione.
Sei adulto. Anche di più. Vai per gli anni della schiena dolente. Lo testimoniano le prime rughe, le prime stempiature abilmente nascoste sulla fronte. La natura del mondo. Nascondi la tua età, ma fino a quando? Si arriva al momento in cui non si pensa più troppo a cosa avverrà, ma si ricordano piacevolmente, in teoria, tutte le imprese del passato. E’ un giro dopo la boa, si va e poi si torna, in continua navigazione.
Adesso dovresti essere lì, sulla via del ritorno, dopo una vita piena, la giornata volge a sera, devi rassegnarti e riportarti a riva. Le gambe sono ferme, la destra fa una leggera pressione sul ginocchio sinistro, la tua mano resta inspiegabile. Inspiegabilmente viva e stagliata contro lo sfondo della luce calda di quel fuoco. Possiedi questa sensazione, almeno, così ti pare, poi, prima ancora di riuscire ad affermare la tua consistenza per un solo istante, c’è di nuovo quel bar. La donna ti sta sorridendo, ha gli occhi verdi, il naso le si allarga sulla faccia, la ammiri, la vorresti divorare. Sta pensando a te, la controlli, guidi i suoi desideri, senti le sue gambe sottili e totalmente prive di muscolatura, le senti come se tu stesso fossi lei. Lo sai cosa davvero è terribile? Ti approva. E ti incanta che lo faccia. Ah, che sensazione magnifica l’approvazione.
Cerca: terribile
L'esistenza del terribile in ogni particella dell'aria. Lo respiri con la trasparenza; ma in te si deposita, diviene duro, acquista tra le viscere forme puntute, geometriche; poiché tutto il tormento e l'orrore che è stato nelle piazze dei patiboli, nelle camere di tortura, nei manicomi, nelle sale operatorie, sotto gli archi dei ponti nel tardo autunno: tutto ciò ha una tenace esistenza imperitura, tutto ciò insiste su di sé e, geloso di tutto ciò che è, s’attacca alla propria terribile realtà. Gli uomini vorrebbero poterne dimenticare molto; il loro sonno lima dolcemente quei solchi nel cervello, ma i sogni lo ricacciano e calcano di nuovo i disegni e gli uomini si svegliano e ansimano e fanno dissolvere nell’oscurità la luce di una candela e bevono, come acqua zuccherata, la penombra che acquieta. Oh, ma su quale sostegno si regge quella sicurezza! Basta voltarsi di pochissimo, e di nuovo lo sguardo è di là dalle cose note amichevoli, e il contorno che un attimo prima era ancora tanto consolatore si precisa come un bordo di orrore. Guàrdati dalla luce che fa più cavo lo spazio; non volgere gli occhi intorno, se forse un'ombra non si erga come un sovrano dietro al suo capezzale. Meglio forse se tu fossi rimasto nell’oscurità e il tuo cuore illimitato avesse cercato di essere il cuore pesante di tutto l' indistinguibile. Ora ti sei raccolto in te, ti vedi terminare nelle tue mani, di tanto in tanto con un gesto impreciso calchi di nuovo il tuo volto mentre non c'è quasi più spazio; e quasi ti acquieta che in questa esiguità, in te, il grandissimo non possa soggiornare; che anche l' inaudito debba contenersi e limitarsi a seconda delle proporzioni. Ma fuori, fuori non a misura prevista; e se là fuori cresce, sale, si colma anche in te, non nei vasi che in parte stanno in tuo potere, o nella flemma dei tuoi organi più imperturbabili: sale per i capillari, succhiato su per i tubi nelle estreme diramazioni della tua esistenza infinitamente ramificata. Là sale, là ti sormonta, va più in alto del tuo respiro, al limite del quale tu fuggi come nel riparo ultimo punto ho, e poi, poi? Il tuo cuore ti spinge fuori da te, il tuo cuore ti incalza alle spalle, e sei già quasi fuori di te e non puoi più tornare indietro. Come un coleottero calpestato, coli fuori di te, e quel po’ di durezza che ti resta alla superficie, e quel po’ di adattamento, sono privi di senso. Oh, notte senza oggetti! Oh finestra che di fuori è opaca, oh porte chiuse con cura! Norme d'altri tempi, ereditate, convalidate, mai del tutto comprese. Oh silenzio nella tromba delle scale, silenzio nelle camere accanto, silenzio alto presso i soffitti! Oh, madre: o tu l'unica che ha sostituito tutto questo silenzio, una volta, al tempo dell’infanzia. Che lo prende su di sé, dice: non avere paura, sono io. Che a notte fonda ha il coraggio d'essere questo silenzio per chi ha paura , chi muore di paura. Accendi un lume, e già il rumore sei tu punto e tieni il lume dinanzi a te e dici: sono io, non avere paura. E lo deponi, lentamente, e non c'è dubbio: sei tu sei tu la luce intorno alle cose consuete amiche, che sono là senza intenzioni nascoste, buone, semplici, sincere. E se qualcosa si agita sulla parete o fa un passo sulle tavole dell’impiantito: tu soltanto sorridi, sorridi, sorridi trasparente sullo sfondo chiaro del volto impaurito che ti scruta, come se fossi una cosa sola con il più lieve rumore, come se connesso fossi d'accordo, partecipe dei tuoi segreti. Vi è sulla terra un potere che uguaglia il tuo potere? Vedi, i re giacciono irrigiditi e il narratore non riesce a distrarli con le sue storie. Sul seno beato della favorita serpeggia in loro l'orrore che li fa vacillanti e fiacchi. Ma tu giungi e tieni l'orrore dietro di te e lo copri completamente di te; non come sipario che qua e là esso potrebbe sollevare. No, come se tu lo avessi oltrepassato, al grido di chi aveva bisogno di te punto come se tu fossi giunta molto al di là di tutto ciò che può sopravvenire, e alle spalle avessi soltanto il tuo a correre qui, il tuo eterno cammino, il volo del tuo amore.
Rainer Maria Rilke
I quaderni di Malte Laurdis Brigge
Cerca silenzio per continuare a leggere
L'ora più silenziosa che mi accade, amici? Mi vedete smarrito, scacciato, docile controvoglia, pronto ad andare, ah, ad andare via da voi! Sì, ancora una volta Zarathustra deve tornare alla sua solitudine: ma questa volta malvolentieri rientra l'orso nella sua spelonca! Che mi accade! Chi me lo ordina? — Ah, la mia adirata signora vuole così, me lo ha detto; vi ho mai fatto il suo nome? Ieri verso sera mi parlò la mia ora più silenziosa: ecco il nome della mia terribile signora. E così, accadde, — poiché tutto debbo dirvi, affinché il vostro cuore non s'indurisca verso colui che si stacca all'improvviso da voi. Conoscete lo spavento di chi si addormenta? — Fin in fondo alle dita dei piedi egli si spaventa, perché il terreno gli sfugge di sotto e incomincia il sogno. Questo ve lo dico come similitudine. Ieri, all'ora più silenziosa, il terreno mi sfuggì di sotto: incominciò il sogno. La lancetta avanzava, l'orologio della mia vita riprendeva fiato, — mai udii tanto silenzio intorno a me: tanto che il mio cuore provò spavento. Allora sentii parlarmi senza voce: «Lo sai, Zarathustra?» — E io gridai di spavento a questo sussurro e il sangue si ritirò dal mio viso: ma tacevo. Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Tu lo sai, Zarathustra, ma non lo dici!». E infine io risposi come un insolente: «Sì, lo so, ma non voglio dire!». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Non vuoi, Zarathustra? È proprio vero? Non ti celare dietro l'insolenza!» — E io piansi e tremai come un bambino e dissi: «Ah, vorrei anche, ma come posso! Condonami almeno questo! È al di sopra delle mie forze!». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importi tu, Zarathustra! Dì la tua parola e infrangiti!» — E io risposi: «Ah, è forse la mia parola? Chi sono io? Io attendo uno più degno di me; non sono degno nemmeno di infrangermi contro di lui». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importi tu? Non sei ancora abbastanza umile. L'umiltà ha la pelle più dura di tutto». — E io risposi: «Che cosa non sopportò già la pelle della mia umiltà! Abito ai piedi della mia altezza: come sono alte le mie cime? Nessuno ancora me lo disse. Ma conosco bene le mie valli». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «O Zarathustra, chi ha da spostare montagne sposta anche valli e bassure». — E io risposi: «La mia parola non spostò ancora nessuna montagna e quel che dissi non giunse fino agli uomini. Andai sì dagli uomini, ma non giunsi ancora a loro». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che sai tu di questo! La rugiada piove sull'erba proprio quando la notte è più taciturna». — E io risposi: «Essi mi schernirono quando trovai e presi la mia strada; e in verità allora mi tremarono le gambe. E così mi parlarono: disimparasti la via, ora disimpari anche a camminare!». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importa il loro scherno! Tu sei uno che ha disimparato ad obbedire: ora devi comandare! Non sai chi è il più necessario di tutti? Chi comanda cose grandi. Compiere cose grandi è difficile: ma più difficile è comandare cose grandi. Questo è quel che meno di tutto si può perdonarti: tu hai il potere e non vuoi dominare». — E io risposi: «Mi manca la voce del leone per comandare». Allora di nuovo sentii parlarmi con un bisbiglio: «Le parole più silenziose sono quelle che suscitano la tempesta. Pensieri che vengono su piedi di colomba, dirigono il mondo. O Zarathustra, tu devi andare come un'ombra di ciò che ha a venire: così comanderai e comandando precederai gli altri» — E io risposi: «Mi vergogno». Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Devi tornare bambino e senza vergogna. L'orgoglio della gioventù grava ancora su di te, sei entrato tardi nella giovinezza: ma chi vuole diventare bambino, deve superare ancora la sua giovinezza».
Friedrich W. Nietzsche
Così parlò Zarathustra
Cerca di tornare bambino
Diario 4
Accendi un lume. Non lo sai cosa lega quello che hai appena attraversato a questo lume, è solo la mente che fa così, ti è piaciuto tornare bambino? I sensi sono impetuosi, non c’è una spiegazione ragionevole: ci sono moltitudini di insensatezze. Sei tu che desideri rappresentare l’esistenza in modo ordinato, dotata di senso. Ti fa spavento? Hai bisogno di menzogne? L’eterno cammino non ha confini.
Qualcosa te lo suggerisce. La donna è molto serena. C’è una luce calda, le tinge la pelle delle guance di rosso, ma non c’è un fuoco scoppiettante in questo nuovo luogo. Il caminetto non è laggiù o lassù, è acceso vicino a te, a due passi dalla poltrona, allunga le ombre sui libri aperti ai tuoi piedi, anche se tu non sei lì. Ancora non senti il calore del fuoco perché non sei pronto. Le voci escono dalle pagine e si amalgamano in un unico suono di ammirazione, tutto tende verso di te come linee di forza attratte da un magnete. E quel magnete sei tu, in un futuro dionisiaco che dovrebbe finalmente darti sollievo.
La donna è arrivata con una motocicletta, indossa delle robuste scarpe e ha sfidato il vento a lungo prima di venire da te, per vederti e promuoverti, anche se ciò è ancora estremamente improbabile anche nella fantasia, dal momento che non sei mai riuscito ad assolverti da solo. Vuoi che lo faccia lei, in quel momento. Un momento che non c’è, ma ci sarà. Ci sarà, ne sei certo. Invece no. Non ci sarà mai. Continua a sorriderti, poi chiude la bocca, la inumidisce con la lingua. Non ti discosti dal pensiero di quel motorino, che ora ti sembra come la groppa di un cavallo su cui lei sta a cavalcioni. La gonna le si tira sopra l’inguine. Per te. È in un luogo meraviglioso. Puoi vederlo è lo stesso che hai vissuto da bambino, la pianura dove andava a perdersi quel treno: orizzonti sconfinati, i fili di erba verde mossi da un vento che giunge da lontano e corre via all’infinito, dove tu non andrai mai più se resti imprigionato nel tuo nulla, nemmeno quando sarai polvere. Spazi con lo sguardo e divori la luce. No. È un’illusione. La realtà è che sei costretto in una gabbia chiusa dalle pareti della tua abitudine. Il calice è solo un bicchiere, ma nei tuoi sogni la parola calice assume un senso di giovialità, mentre bicchiere suona offensivo e transitorio. Definiresti bicchiere anche quello che puoi prendere in questo momento, nella tua stanza, per alleviare un po’ la sete dopo un pasto salato. Per placare il tuo bisogno rafforzato da un’abitudine sulla quale ormai la volontà ha perso ogni controllo. Sei accanto alla tua presenza senza potervi aderire, la sfiori, la affianchi, alla fine ti guardi da fuori. Sei ridicolo: seduto mollemente a rimirare il caminetto acceso che potrebbe darti un po’ di sollievo dal gelo che ti porti dentro, ma tanto non ci sei, non sei tu che ti scaldi e la fiamma non ti produce alcun effetto. Interiormente sei una lastra. Una lastra e poi nulla. Non c’è neppure un materiale.
Non esistono materie, né spirito, non appartieni né al passato né al presente e il tuo futuro è così idealizzato è così rimandato da sapere con rassicurante certezza che non si avvererà mai. Ti poni obiettivi talmente irraggiungibili che hai finalmente la certezza del tuo eterno scontento. Sai benissimo che nessuna divinità sarà mai così crudele da accontentarti e metterti alla prova, distruggendo i tuoi propositi di infelici lamentazioni. Puoi solo cercare nelle pagine bianche e nere, tra le parole generatrici, l’evasione che cerchi. Non hai un contenitore che possa essere riempito del vuoto in cui abita il tuo spirito. Ci vorrebbe almeno un bicchiere.
Non c’è nessuna relazione tra gli oggetti del futuro e quelli che potresti davvero prendere con la tua mano inspiegabile. Quello del futuro sarà un bicchiere prezioso, ammirato con veemenza dagli altri. Fantasmi di altre storie galleggiano in quel bar. Non sono liberi dal tuo potere di comando: se vuoi spegni tutto e per loro è finita. Sei accaldato da questa sensazione di dominare, quando non ti resta, invece, che sperare un gesto di clemenza della tua stessa dittatura. Dovresti decidere di rinunciare al controllo, chiedermi di guidarti nelle prossime azioni, dando fiato al tuo demone sotterraneo, ma per farlo dovresti essere qui, accanto al camino acceso, che non vuoi percepire. Eppure, approfitti del caldo, eh? La redenzione ti attraversa senza sfiorare il benché minimo organo che ti appartenga. Accetti la generosità che ti offre il fuoco solo perché ti fa comodo ma poi avresti paura di scoprire che non ha una vera forma. Siete tu e lui. E il gatto. No, anzi, no, non c’è un gatto. Non sai nemmeno se ti piace esser solo o ti fa paura. Non sei. E se non c’è nessuno quando non sei, non puoi sapere se sei solo. È il gatto che è solo. Dove sei? Nel tuo rassicurante bar.
La donna allunga una mano, si sofferma sul bicchiere pieno e si appoggia al tuo sguardo. Scricchiola il ciocco nel caminetto accanto a te, facendoti sentire nei due mondi in contemporanea, in questa ora che non stai trascorrendo, che stai solo transitando, come un bambino neonato che vorrebbe afferrare il sonaglio caduto a terra, ma non può.
Pensi a tua madre. Una matematica sentimentale scompone i tuoi ricordi e li vivifica di nuovo. Come mai ora un groppo ti annoda sordamente la gola, limitando il tuo respiro, facendo rifluire i succhi gastrici verso l’esofago?
La mamma, quando sei in cucina, passa lo straccio, mentre tu sei seduto sulla sedia e non arrivi a toccar terra. Sei nella pienezza. C’è la radio che scricchiola a viva forza e produce strani suoni: come dei popcorn nella padella di acciaio. Roba degli anni Ottanta. Prendere i chicchi e farsi i pop corn in casa, tenendo bene il coperchio abbassato. Bom, pam. Bum bum pim. Fioriscono bollenti petali biancastri, ma non apri per non trovarti la stanza devastata. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ti ricordi? Sorridi. Devono aspettare. Li mangerete di sera. Ora sei completamente intento nel tè e in una fetta di soffice torta di mele.
Lei non ti guarda, però ti ama. Ora non senti più quel bisogno di sicurezza appagato come allora: ti pare di esser stato gettato in acqua e non sai nuotare. Ci sono pericoli. Il tuo presente è un continuo rischio. Scricchiola il ciocco di legno, come la ghiaia sotto le tue scarpette in quella stazione, la caffettiera emette un lungo fischio e del vapore raddensa l’aria.
Ecco che sei più basso di cinquanta centimetri, crivellato di battiti cardiaci, mentre aspetti il tintinnare del campanello guardando impaziente il vecchio signore rilassato sulla panchina. “Quando passa il prossimo treno?” “E chi lo sa?”. Ti guardi intorno. C’è un tabaccaio chiuso da tempo. Forse da anni. Forse dagli anni Sessanta. E chi compra sigarette in quella stazione che non concede nulla alla civiltà? Non c’è biglietteria, neanche automatica. Un giorno non ci verrà più nessuno, nemmeno un bambino, qui. Il vecchio estrae dalla tasca un fazzoletto e si pulisce la bocca, poi lo rimette in tasca. Ha compiuto la sua azione con il peso degli anni nelle mani, consapevole della propria anzianità, le vene gonfie, le giunture arrugginite, senza chiedere di più al suo corpo, solo di arrivare alla fine di quell’azione con la lentezza con cui riesce a farla ancora al meglio, senza sbavarsi sul mento per via della dentiera instabile. È di un buon umore con te bambino. Sprazzi di gioia che i vecchi assaggiano nel cuor loro, vedendo la fanciullezza. I bambini gli regalano una grottesca fecondità emotiva che sprofonda nella nostalgia di impronunciati ricordi, ancora più addietro. E il tempo continua a imporre il suo regno. Sospiri. La sua mano si allunga, torta come le radici di un pino di montagna. La tua si staglia verso la luce del fuoco. Contiene ancora le ossa, ma non sai che cosa le permetta di muoversi. Credi di poterla controllare, invece non è così. Tante volte ti ha tradito, ribelle all’ordine mentale. Tu diffidi di lei. Ha afferrato, ha trascinato, ha colpito esattamente nel momento in cui le chiedevi di non afferrare, di non trascinare, di non colpire.
Guardi ancora: le dita affusolate, secche, percorse da una sottile rete di vene appena visibili. Inspiegabile. In quelle vene scorre il tuo sangue indocile ma un giorno si asciugherà, si trasformerà e poi nutrirà la terra, come il coniglio che prosegue il suo cambiamento organico nella chimica del tuo stomaco. E di nuovo sei su una poltrona a guardare il camino che assapora le fiamme stanche.
Sali sul treno
– Il treno? Che treno?
– Ha fischiato.
– Ma che diavolo dici?
– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare... – Il treno?
– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
– Si parte, si parte... Signori, per dove? Per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
– Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinari, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima».
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva.
Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad essi; se mai, porgevano qualche aiuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al buio, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
– Magari! – diceva – Magari!
Signori, Belluca s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! C’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino.
Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste...
E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebbro della troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:
– Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...
Luigi Pirandello
Il treno ha fischiato
Si prende con l'immaginazione
Indizio
Diario 5
Pare che il ramo spezzato continui a produrre calore, mentre tu sei freddo, sterilmente afflosciato sulla poltrona. È solo l’immaginazione che ti ha fatto di nuovo prendere una boccata d’aria nel mondo. Non hai nessun diritto sulla tua respirazione e questo ti irrita. Ancora ti tocca dipendere da qualcosa che ti fa vivere nonostante te. È la tua condanna a morte. Questo cammino verso il patibolo è l’unico modo per sentire lo spessore del tempo. L’imminenza della morte.
Non ti fermi a osservare l’ossigeno che tuo malgrado gonfia i tuoi polmoni, quello strato di aria che contieni a intermittenza. Vorresti solo decidere di respirare o non farlo, vorresti scegliere quanto inspirare e quanto restituire fiato all’ambiente che ti circonda e, pensando questo, ti perdi la possibilità di partecipare alla vita.
È lei che ti esclude per via della tua irriconoscenza. Non senti il tempo che fluisce, attimo dopo attimo, hai rimosso il ricordo della fine per non averne paura ma hai scordato anche di sentire gli attimi che scorrono e di viverli. Hai paura di averne nostalgia? Vuoi controllare, per non soffrire di un mondo che non è sotto il tuo dominio. Cosa ti serve per tornare ad esserci adesso e qui e smettere di essere remoto? Perfino il polline che vola nell’aria esiste. Provi a ricomporti per non lasciarti sfuggire questi incredibili eventi. Provi a partecipare. Il fuoco potrebbe essere una chiave.
Dovresti venire via da lì e farti portare verso la tua paura per guardarla i tuoi occhi nei suoi mille occhi antichi. Non ti basta un campanello per risvegliarti, ma l’inconscio strilla che è arrivato il limite della sopportazione e che le ombre si stanno allungando attorno al fuoco fino ad avere colmato tutta la stanza. Non c’è più spazio nel tuo tempo. Le quattro pareti della tua pelle sono tese all’inverosimile, è ora di spostare il tuo corpo ma ad ogni pulsione la mente oppone una resistenza violenta, vuole tornare a rifugiarsi nel bar, quello in cui ti ho visto entrare e da cui non esci mai. Sei sparito nelle pieghe tra immagine e tempo. Cosa ti serve per tornare ad esserci adesso e qui e smettere di essere remoto? Perfino il polline che vola nell’aria esiste. Perfino le ombre. Dove sei?
Lo hai rimosso
Indizio
Ma sarà meglio che vi parli di un’altra persona, un tipo che conobbi un annetto fa. Il suo era un caso molto strano: dico strano, perché raro. Era stato condannato, insieme con altri, alla fucilazione. Per non so per quale delitto politico, doveva essere giustiziato. Gli fu letta la sentenza di morte. Se non che, venti minuti dopo, arrivò la grazia, cioè la commutazione della pena. Nondimeno, durante quei venti o quindici minuti, egli visse nella ferma convinzione che di lì a poco sarebbe morto. Io lo ascoltavo con vivo interesse quando narrava delle sue impressioni di allora e gli facevo cento e cento domande. Si ricordava di tutto con una chiarezza straordinaria: non avrebbe mai dimenticato, diceva, un solo attimo di quei minuti. A venti passi dal luogo dell’esecuzione, affollato dai soldati e dal popolo, i carnefici avevano piantato tre pali perché i condannati erano parecchi. Portarono i primi tre verso quei pali, li legarono, li vestirono con l’abito di morte, cioè con lunghi camici bianchi, calcarono sui loro occhi dei berretti, sempre bianchi, affinché non vedessero i fucili; poi, di fronte a ciascun palo si schierò un drappello di soldati. Il mio uomo era l’ottavo condannato, e quindi doveva essere legato al palo nella terza serie. Un prete, con in mano il crocefisso, assisteva i condannati. Si arrivò così a cinque minuti prima del momento fatale, non più di cinque. Quei cinque minuti, diceva il mio uomo, gli erano sembrati interminabili, un’enorme ricchezza. Gli pareva di vivere, in quel brevissimo intervallo, tante e tante vite e così lunghe, che non sembrava assurdo pensare all’imminenza della morte. Distribuì il suo tempo in questo modo: due minuti per dire addio ai compagni, altri due per raccogliersi e pensare a sé, un minuto per dare un’occhiata a quello che gli succedeva intorno. Aveva ventisette anni; era sano e robusto. Accomiatandosi da uno dei compagni, si ricordava di aver fatto una domanda insignificante e di averne aspettato con interesse la risposta. Agli addii seguirono i due minuti del raccoglimento. Sapeva già cosa avrebbe pensato: “Adesso sono vivo; ma fra tre minuti, che sarò? Qualcuno o qualche cosa, e dove?”. Non lontano sorgeva una chiesa, e la cupola dorata splendeva nel sole. Si era messo a fissare questa cupola: credeva che i raggi che vi si riflettevano fossero la sua nuova natura e che fra tre minuti egli si sarebbe confuso con essi. L’ignoto che lo attendeva era certamente terribile; ma, ad atterrirlo per davvero, era un pensiero assiduo: “E se non morissi? Se la vita continuasse?... Che eternità! È tutta, tutta a mia intera disposizione... Oh, se così fosse, io non sprecherei mai più un solo attimo di vita e vivrei ogni minuto con l’intensità di un’esistenza intera!”. Questo pensiero lo invadeva in maniera tanto profonda che, a quel punto, avrebbe voluto esser fucilato all’istante». Il principe tacque e le sue quattro ascoltatrici stettero in attesa della conclusione. «Avete finito?», domandò Aglaja. «Che? Che cosa?», si riscosse il principe che pareva assorto. «Sì, ho finito». «Ma perché avete raccontato questa storia?» «Così... per discorrere... m’è venuta in mente...» «Siete un po’ incostante, principe», osservò Aleksandra. «Che cosa volete provare? Che ogni attimo della vita è prezioso e che a volte cinque minuti valgono più di un tesoro? E sia, ammettiamolo pure... Ma, scusate, a quel vostro amico che vi raccontava i suoi spasimi gli commutarono la pena, non è così?... In altri termini, secondo lui e secondo voi, gli fecero dono di una vita senza fine, di un tesoro. E che ne fece egli di questo tesoro? Riuscì a onorare tutti i minuti di cui era composto?» «Oh no! Glielo domandai una volta e mi confessò di averne perduti molti, di minuti. «Eccovi dunque, una prova che utilizzare tutti, ma proprio tutti i minuti della vita, non è possibile... Per una ragione o per l’altra, fatto sta che non è possibile». «Sì, per una ragione o per l’altra, non è possibile», «Possibile», fece eco il principe. «Anch’io l’ho pensato... Eppure, mi sembra poco credibile...» «In altri termini, voi immaginate di vivere meglio di tutti gli altri?», intervenne Aglaja. «Sì, lo confesso, qualche volta l’ho pensato». «E lo pensate anche adesso?» «Anche adesso», rispose il principe, guardandola con un dolce e timido sorriso, seguito immediatamente da una franca risata. «Che modestia!», esclamò Aglaja. «Eppure, è facile per voi essere coraggiose! Il racconto di quell’uomo vi fa ridere, io, invece, “vidi” poi in sogno quei terribili cinque minuti...
Fëdor Michajlovič Dostoevski
L’idiota
Tic tac
La fortezza di Pietro e Paolo, 22 dicembre 1849
A Michail Michailovich Dostoevskij, prospettiva Nevskij, di fronte a via Gryazny, nella casa di Neslind.
Fratello, mio prezioso amico! Tutto è combinato! Sono stato condannato a quattro anni di lavori forzati nella fortezza (credo quella di Orenburg) e, dopo ciò, a prestare servizio come soldato semplice. Oggi, il 22 dicembre, fummo portati alla piazza d’armi Semionov. Là ci venne letta la condanna a morte, ci venne detto di baciare la croce, le nostre spade furono spezzate sopra le nostre teste e ci lavammo per l’ultima volta (camicioni bianchi). Poi, tre vennero legati al palo per l’esecuzione. Io ero il sesto. Vennero chiamati tre alla volta; così io ero nel secondo lotto e non mi rimaneva più di un minuto da vivere. Ti ricordai, fratello, e ricordai tutti voi; durante l’ultimo minuto, tu, tu solo, eri nella mia mente, solo allora compresi quanto ti amo, caro mio fratello! Riuscii anche a abbracciare Pleshcheyev e Durov, che erano in piedi vicino a me, e a dir loro addio. Infine fu suonata la ritirata, e quelli legati al palo vennero riportati indietro, e ci fu annunciato che Sua Maestà Imperiale risparmiava le nostre vite. Dunque seguirono le sentenze correnti. Solo Palm è stato graziato, e ritorna all’esercito con il suo vecchio grado.
Mi venne detto solamente, caro fratello, che oggi o domani verremo deportati. Chiesi di poterti vedere. Mi fu detto che ciò era impossibile; ti posso solamente scrivere questa lettera: affrettati e dammi una risposta appena ti è possibile. Temo che tu sia venuto in qualche maniera a conoscenza della nostra condanna a morte. Dalle finestre del cellulare, mentre venivano portati alla piazza d’armi Semionov, vidi una folla di gente. Forse la notizia si raggiunse e tu soffristi per me. Ora sarai sollevato da questa mia relazione. Fratello! Non sono triste, o depresso. La vita è la vita ovunque, vita in noi stessi, non in ciò che è fuori di noi. Ci sarà qualcuno vicino a me, ed essere un uomo tra la gente e restare un uomo per sempre, non essere triste né cedere a causa di qualunque sfortuna possa capitarmi, questa è vita; questa è la missione della vita. Ho capito questo. Questa idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue. Sì, è vero! La testa che creava, viveva con la vita più alta dell’arte, che aveva compreso e si era abituata ai bisogni più alti dello spirito, quella testa è già stata mozzata dalle mie spalle. Le rimangono la memoria e le immagini create da me, ma che in me non più si incarnano. Mi lacereranno, è vero! Ma rimane in me il mio cuore e la stessa carne e lo stesso sangue, che possono anche amare, soffrire e desiderare, per ricordare, e questa, dopotutto, è vita. On voit le soleil! Ora, addio, fratello! Non rattristarti per me!
Ora, per quanto riguarda i beni materiali: i miei libri (ancora mi è rimasta la Bibbia) e parecchi fogli del mio manoscritto, la bozza dell’opera teatrale e del romanzo (e la storia completa Storia di un bambino) mi sono stati sottratti, e con ogni probabilità andranno a finire a te. Lascio anche il mio cappotto e i vecchi vestiti, se mandassi qualcuno a prenderli. Fratello, è possibile che dovrò marciare una distanza molto lunga. Serve del denaro. Mio caro fratello, quando riceverai questa lettera, e se c’è alcuna possibilità di ottenere del denaro, mandamelo immediatamente. Adesso ho più bisogno del denaro che dell’aria (per uno scopo particolare). Mandami anche qualche riga. Infatti se arriva il denaro da Mosca, ricordami e non abbandonarmi. Be’, questo è tutto! Ho dei debiti, ma che cosa posso farci?
Bacia tua moglie e i bambini. Ricordami loro continuamente; fa’ in modo che non mi dimentichino. Forse, un giorno, ci incontreremo pure! Fratello, prenditi cura di te stesso e della tua famiglia, vivi calmo e con cautela. Pensa al futuro dei tuoi figli. ... Vivi positivamente. Non ho mai avuto prima una tale, sana abbondanza di vita spirituale come quella che opera adesso in me. Ma il mio corpo resisterà? Non lo so. Me ne sto andando malato, ho la scrofola. Ma non preoccuparti! Fratello, ho già attraversato tanto nella vita, che ora quasi nulla può spaventarmi. Venga quel che deve venire!
Alla prima opportunità ti farò sapere di me. Dà ai Maikov il mio addio e i miei ultimi saluti. Dì loro che li ringrazio tutti per essersi interessati costantemente al mio destino. Dì qualche parola per conto mio, e il più calorosamente possibile, come ti suggerisce il tuo cuore, a Eugenia Petrovna. Le auguro molta felicità, e la ricorderò sempre con grato rispetto. Stringi le mani di Nikolaj Apollonovich e Apollon Maikov, e anche di tutti gli altri. Cerca Janovskij. Stringigli la mano, ringrazialo. Infine, stringi le mani di tutti quelli che non mi hanno dimenticato. E per quanto riguarda quelli che mi hanno dimenticato, ricordami loro. Bacia nostro fratello Kolja. Scrivi una lettera a nostro fratello Andrej e fargli sapere di me. Scrivi anche allo zio e alla zia. Ti chiedo di fare questo in nome mio e di salutarli per me. Scrivi alle nostre sorelle: auguro loro di essere felici.
E forse, una qualche volta, ci incontreremo di nuovo, fratello! Prenditi cura di te stesso, continuerò a vivere, per l’amor di Dio, finché ci incontriamo. Forse qualche volta ci abbracceremo a vicenda e ci ricorderemo della nostra giovinezza, della nostra era dorata che fu, la nostra gioventù e le nostre speranze, che in questo stesso istante sto strappando fuori dal mio cuore con il mio sangue per seppellirle. Può dunque essere che non potrò mai avere una penna fra le mani? Credo che dopo i quattro anni potrebbe esserci una possibilità. Ti invierò qualunque cosa che riuscirò a scrivere, se scriverò qualcosa, per Dio! Quante creazioni della mia mente, vissute da me, create da me ex novo, periranno, saranno estinte nel mio cervello, o goccioleranno come veleno nel mio sangue! Sì, se non mi sarà consentito di scrivere, io morirò. Meglio 15 anni di prigione, con una penna fra le mie mani!
Scrivimi più spesso, scrivi più dettagli, più, più fatti. In ogni lettera, scrivi riguardo a qualunque genere di dettagli di famiglia, di nullità, non dimenticare. Questo mi darà speranza e vita. Se tu sapessi come le tue lettere mi ridiedero vita qui nella fortezza. Questi ultimi due mesi e mezzo, quando era proibito scrivere e ricevere lettere, sono stati molto duri per me. Ero malato. Il fatto che tu non mi inviasti a volte del denaro mi preoccupava, ma per te; significava che tu stesso eri nel bisogno! Bacia i bambini ancora una volta; le loro amabili faccine non abbandonano la mia mente. Ah, che siano felici! Sii tu stesso felice, anche tu, fratello, sii felice! Ma non addolorarti, per l’amor di Dio, non addolorarti per me! Credimi che non sono triste, ricorda che la speranza non mi ha abbandonato. Fra quattro anni il mio destino si addolcirà. Sarò un soldato semplice, non più un prigioniero, e ricorda che, qualche volta, ti abbraccerò. Oggi, la morte mi tenne nella sua morsa per tre quarti d’ora; sopravvissi con quell’idea; fui all’ultimo istante e ora vivo di nuovo! Se qualcuno ha cattivi ricordi di me, se ho litigato con qualcuno, se ho creato in chiunque un’impressione spiacevole, digli che dovrebbero dimenticarsene, se ti riesce d’incontrarli. Non c’è bile e non c’è disprezzo nella mia anima; in questo momento, sarei felicissimo di abbracciare uno qualunque dei miei vecchi amici. È un conforto che ho provato oggi nel dire addio ai miei cari prima della morte. Pensavo, in quel momento, che la notizia dell’esecuzione ti avrebbe ucciso. Ma ora calmati, sono ancora vivo e vivrò nel futuro con il pensiero che prima o poi ti abbraccerò. Ho in mente soltanto questo ora.
Che cosa stai facendo? A che cosa hai pensato oggi? Sai di noi? Che freddo che faceva oggi!
Se solo la mia lettera ti raggiungerà in fretta. Altrimenti, dovrò passare quattro mesi senza tue notizie. Ho visto le buste in cui inviasti del denaro durante gli ultimi due mesi; l’indirizzo era scritto di tua mano, e fui lieto del fatto che stavi bene.
Quando guardo al passato e penso a quanto tempo è stato sprecato invano, quanto tempo fu perso in illusioni, in errori, nell’accidia, nell’ignoranza di come vivere, quanto poco valore diedi al tempo, quanto spesso ho peccato contro il mio cuore mio spirito, il mio cuore sanguina. La vita è un dono, la vita è felicità, ogni minuto potrebbe essere stato un’epoca di felicità. Si jeunesse savait! Ora, mentre la mia vita cambia, rinasco in una nuova forma. Fratello! Ti giuro che non perderò la speranza, e che conserverò il mio spirito e il mio cuore nella purezza. Rinascerò in una cosa migliore. Questa è tutta la mia speranza e tutto il mio conforto!
La vita in prigione ha già ucciso a sufficienza in me le richieste della carne che non erano completamente pure; non mi curavo molto di me stesso prima. Ora le privazioni non sono nulla per me, e, quindi, non temere che una qualunque durezza materiale mi ucciderà. Questo non può essere! Ah! Esser sani!
Addio, addio, fratello mio! Quando ti scriverò ancora? Riceverai da me una spiegazione, la più dettagliata possibile, del mio viaggio. Se solo posso conservare la mia salute, allora tutto sarà a posto!
Be’, addio, addio, fratello! Ti abbraccio strettamente, ti bacio strettamente. Ricordami senza dolore nel tuo cuore. Non dolerti, ti prego, non dolerti per me! Nella prossima lettera ti dirò come va. Ricorda allora quello che ti ho detto: progetta la tua vita, non sprecarla, progetto il tuo destino, pensa ai tuoi figli. Vederti, vederti! Addio! Ora mi strappo via da tutto quello che era caro; è doloroso lasciarlo! È doloroso spezzarsi in due, tagliare il proprio cuore in due. Addio! Addio! Ma ti vedrò, ne sono convinto, lo spero; non cambiare, amami, non lasciare che la tua memoria si raffreddi, e il pensiero del tuo amore sarà la parte migliore della mia vita. Addio, addio, ancora una volta! Addio a tutti!
Tuo fratello
Fëdor Dostoevskij.
Fëdor Michajlovič Dostoevski
Lettere
L'ultimo saluto
Diario 6
Addio. Addio. Il cuore, il sangue e la fiducia. Prima o poi, pensi, afferrerò un’iniziativa e cambierò tutto, come in quei libri motivazionali. Cinque e trenta: Un’Ora di Corsa Sotto il Temporale Sputando Liquidi e Demoni. Il muggito del vento. La scomodità. Prima o poi devi proprio tentare: l’ultima spiaggia è quella. Ma per ora vai al mare. La penultima. Se non funziona, rimane la spiaggia È Davvero Finita, che torna ancora al bar, accanto ai Bagni Di Lacrime. Dunque. Ti sposterai in treno, sì. Non hai imparato ad avere fiducia nella guida di una macchina. Ti dici sempre: a che serve, io vado lo stesso, e poi resti fermo. Hai salutato ma non hai nessuno da salutare, non hai un fratello. Sei solo. La paura, l’irrazionalità. Il caos. Sono qui da poco ma so già che per te sarebbe troppo difficile sentire la verità. La tua esistenza non è messa a fuoco. Vaghi ondeggiando come su una statale tra le colline, tra curve impervie, senza che la nebbia ti permetta di vedere oltre e, infine, quando finalmente ci vedi, ti trovi sei tu che torni a essere sempre uguale. Ma tutto intorno a te, il resto è mutato. Anche tu lo capisci bene che solo il tempo per arrivare al patibolo ti farebbe capire che cosa è ogni secondo di vita, ma non hai avuto questa grazia. Stai cercando questo senso scrutando nelle voci della mente antica. Le senti, ti parlano, ma non riesci ancora a farle tue o a sceglierne una. E allora resti nell’oscurità, in carca di un appiglio seppur letterario, in balia delle ombre e finisce che te ne vai ancora nel bar, tra tutta quella gente che sta cominciando già ad urlare il tuo nome. È così che te ne accorgi. Qual è il tuo nome? Non ce l’hai perché non hai mai riconosciuto qualcuno che ti ha chiamato quando lo ha fatto, no, non sei sordo, è che non sei, così ti trovi nella difficile situazione di doverne immaginare uno nuovo, di nome, uno valido. E ti ritrovi a pensare che non ce n’è uno che ti identifichi, illusioni, convinzioni: potresti averne moltissimi.
Ancora devi inghiottire questa identità frammentaria. Devi mandarla giù con qualcosa che la faccia scivolare nel tuo stomaco. Ci riuscirai, è solo questione di continuare a cercare, sentire scorrere queste potenti identità attraverso te. Queste, che sono lacerate dalla sensibilità strabordante. Mentre la tua identità si esaurisce nel farti deridere in un ufficio e consumare caffè al bar. E non dico che non sia qualcosa.
Un uomo che conosci ti porta la sua stempiatura e la sua bocca larga, aperta. È uno che sta nei posti di comando da qualche parte nella realtà che sai evitare abilmente, come uno sciatore di slalom evita i paletti.
In quel bar ti assale l’invidia. Gli fai cadere i denti. Corre in bagno. Sei stupito. Tu puoi tutto. Tu strizzi lo sguardo fino a trasformare il tuo campo visivo in una fessura, ti concentri e, attraverso una potentissima manipolazione degli eventi esterni, influenzi la realtà. Adesso ti stanno guardando tutti con stupore e con un po’ di paura. Sei temuto.
Ah, no. Non è vero. Ti piacerebbe. Non è successo niente, di nuovo. È tutto uguale a prima. Sei fuori strada, stai utilizzando il metodo sbagliato: non è nella tua immaginazione che devi agire per identificarti. Tu sei ancora immobile, invece lui è lì a sorridere baldanzoso durante la sua pausa dopo un ottimo lavoro. È andato tutto bene, come sempre, quell’uomo è molto ottimista e trascinatore. Li ha ipnotizzati tutti. Vorresti farlo anche tu.
È che non puoi. Sei meno bravo. Ammettiamolo, non c’è nulla di male. Ora che ti guardo lo capisco così bene che nemmeno una vita di psicoanalisi ti farebbe avere questa chiarezza.
Non è colpa tua se sei ridotto così, accanto al camino. Alla fine, ci sono riusciti. Ma di chi parli? Degli infiniti te stesso? Torna ai tuoi libri, scava più a fondo e trova qualcosa che colleghi questo tuo stato a uno più nobile.
Forse adesso tutto potrà cambiare, forse Lei ti ama. Le accarezzi i capelli lisci e bruni attorno al suo volto e pensi che sia tua. Forse lo è veramente, dato che non esiste.
Improvvisamente il bar si fa buio. Immaginare la gioia non ti riesce ancora bene, l’elastico si rompe, tutti ti commiserano. Non è colpa tua, sei davvero sfortunato. Un secondo fa eri a un passo dalla realizzazione, facevi tremare le gambe alle ragazzine, acclamato da tutti, possedevi tutto ciò che desideravi, un secondo dopo è apparsa la consapevolezza del tuo fallimento.
La seduzione si è trasformata in consolazione per tutti i mali. Ti consoli con lei. La tua vita transita in un’orbita microscopica e continui a ripetere sempre gli stessi gesti prevedibili. Perseveri! L’inconscio ti ha rubato il bastone del comando e precipiti nel riflesso di ciò che veramente sei, senza sapere di esserlo. Non riesci a sfondare il muro che ti porterebbe a raggiungere almeno quel sonaglio che ti era caduto a terra da neonato. Non hai una mamma che lo possa raccogliere per porgertelo.
Non è più qui.
Insoddisfazione e abbandono. Perché ti hanno lasciato solo? Ti domandi, dopo essere finalmente riuscito a fare di tutto per circondarti di vuoto.
Ti scrolli di dosso tutto quel bar.
Sei sulla poltrona, ancora accanto al fuoco.
Non può essere. Non puoi essere.
Non puoi essere più.
Un senso di frustrazione ti spinge alla ricerca di un nuovo riempitivo, ma non ne hai.
Se solo tu avessi fatto, se solo tu potessi ancora fare, chissà se succederà? Chissà che tu non faccia... invece niente. Il tempo non è perché tu non fai. Che se non succede non puoi nemmeno raccontare. Di cosa hai paura? Ma perché non fai?
Rifletti su cosa ti potrebbe dare gioia. Avere un po’ di tempo per te e per occuparti di quello che ti piace. Questo credi che sia il bene più prezioso. Ora che sei lì e hai tempo per occuparti di ciò che ti piace, non sai cosa ti piace. Come colmare questo spazio?
Neanche la sazietà ti appaga perché se avessi fame ci sarebbe una ragione di vuoto, un vuoto chiamato appetito, ci sarebbe una soluzione. Un pasto. Ti aiuterebbe, Dio mio, avere almeno un pochino di appetito, ti servirebbe a qualcosa, invece sei anche sazio.
Il palato non prova alcun desiderio.
Non lo sopporti più, quello che avevi pensato, creduto, sostenuto.
Sei contrario. Ti rivolti contro la trasparenza del vuoto di quella stanza, lanciando pugni che non possono colpire, che non possono rompere le tue nocche. Non trovi la minima resistenza.
Sei rabbioso perché nulla ti ostacola.
Sei rabbioso perché nessuno ti contraddice, ti obbliga, ti si para davanti.
Sei rabbioso perché i limiti della tua mortalità terrena non ti permettono di avere fame. Vorresti tornare indietro, a quando hai cucinato la cena, a quando hai affettato le verdure, hai cotto la carne. Poco prima di guardare il piatto e iniziare ad abbuffarti. Hai mangiato? Non te ne sei accorto, eppure sei sazio. Non hai portato dentro di te l’esperienza del pasto e ora sei seduto abbandonato a te stesso, solo nella stanza, mentre l’unica cosa che brucia è un pezzo di legno che lentamente sfuma verso la cappa. Tu no. Tu non stai nemmeno sudando, tu non puoi attraversare la muratura per disperderti nel cielo. A terra, le ombre si allungano a formare delle punte imparziali. Non importa cosa ti stia succedendo, loro diventano acuminate e annunciano la notte.
Non ci credi che la tua esistenza si stia consumando nello stesso modo, con la stessa velocità. Il secondo colto da quel ragno che hai spiaccicato sul marmo del pavimento è solo percepito diversamente da ogni secondo della tua vita, ma è sempre lo stesso identico tempo che è passato, lo stesso che ha separato la sua corsa sulla pietra dalla morte della tua scarpa. Lui era nel centro della tela e lo hai ucciso per invidia. Perché tu continui a essere marginale anche nella tua stessa vita.
Ti sei sentito sovrano, capace di distruggere, ma non puoi generare nulla, nemmeno la tua presenza all’universo per un millesimo di secondo. Tutti i tuoi gesti opulenti non valgono nemmeno l’attimo in cui quell’essere ha perso una vita che accadeva per davvero, con un sussulto di agonia, un’opera d’arte in cui il conflitto è duro e vivo, alla fine del quale la vita stessa è soppressa. La tua no. Resta lì sopra. Indigesta. Diventeresti potere, immensa fortuna? Non sei capace, per il momento, di cogliere la provocazione. La tua vita lotterà così? Forse no, non c’è mai stato un ring, solo una cupa e lenta digestione. Peristalsi. Ma non emozioni. Non dobbiamo scendere a conclusioni troppo compiute. Ancora non lo sappiamo perché dobbiamo prima arrivare alla fine del viaggio. Eliminazione. Manca poco per scoprirlo. C’è ancora un apparato esteso di scelte e potenziali.
Non hai capito? Stai guardando il ragno sconfitto? Credi di poter compromettere il mondo con la tua volontà, ma sei meno significativo con le tue gesta della tela che è rimasta abbandonata nell’angolo del soffitto.
Sei rabbioso perché il ragno era almeno un ragno. Incuteva terrore che, per alcuni, non per te, equivale a eccitazione. È l’interesse romantico per la vita. Probabilmente hai schiacciato un essere che nella scala del valore degli esseri viventi era al di sopra perfino del tuo capufficio. E mentre la barista si schifa per il ribrezzo che hai fatto ammazzando le parti putride di quell’anima antica (ma sgradevole, dai, a vedersi), tu la guardi con amore. A terra hai l’aracnide. Una dea ormai mortificata, non si sentono già più le voci dell’origine maestosa della sua stirpe e della nobile esistenza in questo straordinario essere di otto zampe ora bidimensionale. Schiacciato come un fiore di liquame verdognolo. Animale morto. È morto. Angoscioso contratto. E molti ridono, fischiano al teatrino della morte. Tu la rappresenti bene e loro capiscono e ridono. In effetti cresce un solletico di terribile in fondo alla gola se si osserva la morte. Un isterico singhiozzo. Una risata sguaiata. E poi rimuovere l’accaduto, il fatto in sé, la morte, la vita. Chiedere da bere. Un caffè. Sbattere la porta.
Atteggiamento di chi è o si mostra incline alle suggestioni del sentimento e della fantasia più che a una concezione razionale e pratica della vita, o di chi è o si mostra di carattere appassionato e malinconicamente sognante.
Henry crede di vivere un momento di grande transizione dall’interesse romantico per la vita, all’interesse classico per le idee. Un anno fa, quando Fraenkel aveva detto: “La gente è idee,” Henry aveva domandato: “Perché idee, perché simboli?” Ora è diventato un filosofo. Ci sediamo nei caffè a bere, ma lui continua a parlare di Spengler. Mi domando perché. Sta forse cercando di dare un ordine alla sua esperienza, di collocarla? Sono fiera della sua attività, però mi sento defraudata dell’Henry avventuroso, col suo mondo sotterraneo, con le sue vistose tribolazioni, le sue notti oscene, la sua ricerca del piacere, la sua curiosità, la sua vita nella strada, i suoi contatti con tutti, con chiunque. Allendy non mi manca per niente. Quanto era saggio a dubitare del mio affetto. Il transfer è finito, e con lui la dipendenza. Quel che rimane è gratitudine, riconoscimento della sua saggezza. Ma la saggezza è una scorciatoia per la morte. Io rimando la morte vivendo, soffrendo, sbagliando, rischiando, dando, perdendo. Allendy ha scelto di morire in fretta, di morire presto, in cambio di un controllo sulla vita. Il romantico si sottomette alla vita, il classico la domina. Si è sottratto al dolore, e ora è morto, vive solo attraverso gli altri, il voyeur seduto dietro la chaise longue, dietro lo schienale tappezzato che nasconde la sua presenza; mi pare ancora di sentire la sua matita che prende appunti sulle vite altrui. Si può anche vivere la vita degli altri, ma solo se si vive anche la propria; perché è quando siamo vivi che possiamo vedere, sentire, intuire e capire di più, e possiamo penetrare la vita degli altri. La sua partecipazione indiretta... che guarda alcove, night club, sale da ballo, bar, caffè, vita notturna, avventure amorose di altri... Egli mi ha dato il coraggio di continuare a vivere, e a questo porgo omaggio. Ma io gli ho dato solo tristezza e rimpianti, struggimento, e pochi momenti di follia. Può essere orgoglioso del suo intuito e della sua abilità, perché mi ha ricreato. Aula della Sorbonne. Allendy e Artaud dietro alla cattedra. Allendy presentò Artaud. La stanza era affollata. La lavagna uno strano sfondo scuro. Gente di tutte le età, che avevano seguito la conferenza di Allendy sulle Idee Nuove. C’era una luce cruda, che faceva sprofondare nel buio gli occhi infossati di Artaud, ma che liberava l’intensità dei suoi gesti. Egli aveva un’aria tormentata. I capelli, piuttosto lunghi, di quando in quando gli cadevano sulla fronte. Nei gesti ha la scioltezza e l’agilità dell’attore. Ha un viso magro, scavato dalla febbre. I suoi occhi non sembrano vedere la gente. Sono occhi da visionario. Le sue mani sono lunghe, le dita affusolate. Dietro a lui Allendy ha un’aria molto terrena, pesante, grigia. È seduto dietro alla cattedra, massiccio, meditabondo. Artaud invece è sulla pedana e ha incominciato a parlare su “Il teatro e la peste”. Mi ha chiesto di sedermi in prima fila. Mi sembra che tutto quello che chiede sia una maggiore intensità, una forma più acuita di sentire e di vivere. Sta cercando di ricordarci che fu proprio durante la peste che vennero prodotti dei meravigliosi lavori artistici e teatrali, perché l’uomo, frustato dalla paura della morte, cerca l’immortalità, tenta di sfuggire a sé stesso, di superarsi. Poi, quasi impercettibilmente, lasciò cadere il filo che seguivamo, e incominciò a inscenare una morte da peste. Nessuno avrebbe saputo dire quando incominciò. Per illustrare la sua conferenza, stava mettendo in scena una agonia. La Peste in Francese è tanto più terribile di The Plague, in Inglese. Ma non ci sono parole per descrivere quello che Artaud rappresentò sulla pedana della Sorbonne. Egli dimenticò la conferenza, il teatro, le sue idee, Allendy seduto alle sue spalle, sua moglie, il pubblico, gli studenti, i professori, e i direttori. Il suo viso era contratto dall’angoscia, e il sudore gli inumidiva i capelli. I suoi occhi si dilatarono, i muscoli si contrassero, le dita lottarono per conservare la flessibilità. Riuscì a farci sentire la gola arida e bruciante, i dolori, la febbre, il fuoco nelle viscere. Era in agonia, gridava, delirava. Stava recitando la propria morte, la propria crocifissione. Sulle prime la gente rimase senza fiato, poi incominciò a ridere. Ridevano tutti, fischiavano. Poi, a uno a uno, incominciarono ad andarsene, rumorosamente, tra chiacchiere e proteste. Uscendo, sbatterono la porta. I soli a non muoversi furono Allendy, sua moglie, i Lalou, e Marguerite. Altre proteste, altri commenti beffardi. Ma Artaud continuò, fino all’ultimo respiro. Poi rimase immobile sul pavimento. Quando la sala si fu svuotata, salvo il piccolo gruppo di amici, Artaud venne dritto verso di me e mi baciò la mano. Mi chiese di andare con lui al caffè.
Anaïs Nin
Diario I: 1931-1934
Che ha delle visioni, delle apparizioni soprannaturali o delle allucinazioni visive.
Indizio
Diario 7
Il bar è di nuovo affollato, è l’ora del caffè dopo il pranzo. Un piccolo rito. Sempre uguale. Quello che ci vuole per non ascoltare i presagi. Pare che sia giunta una nuova notizia della quale tutti sono veramente felici. La tua bocca si apre per pronunciare la frase importante che gli astanti prevedono. Escono fiotti d’aria senza suono. Non importa, soprassiedi, la tua immaginazione non è capace di circoscrivere ad un unico concetto la pienezza che vorresti possedere, perché la tua insoddisfazione è così sconfinata da non permettertelo.
La donna cade a terra, nella durata di quel volo i suoi capelli si aprono come un ventaglio bruno. Il pavimento è sporco. Ti pieghi e le tendi la mano per aiutarla a risollevarsi, prima di decidere perché le hai fatto fare quella caduta.
Tutti vi guardano. Chiacchierano e protestano. Se ne vanno.
Sei rabbioso perché non sei riuscito a tenerla in vita.
Sei rabbioso perché non hai potuto darle corpo.
Si è sbriciolata.
È finta. È solo un manichino. È svanita dopo l’angolo e non esiste più, non c’è mai stata. Gli altri lo sapevano. Come mai non riesci più a governare queste proiezioni? I tuoi occhi sono occhi da visionario. Comincia anche quel mondo effimero parallelo e psicotico ad essere inafferrabile, con il risultato che non sei più né da una parte né dall’altra. Il fuoco si sta spegnendo. Non hai più potere, non hai più controllo. Sospiri, anzi, ansimi per scacciare un lieve groppo in gola, come se avessi ingerito una spina di pesce o una scheggia di ossa di coniglio di traverso. Devi fare una pausa. Vorresti lamentarti anche di questo, ma non puoi dirlo a nessuno, sei solo. C’è il gatto, ma lui non ti considera niente di importante. Sta cercando di dormire e non ha tempo per sognare, deve riposare. Domani uscirà, mentre tu, dovunque andrai, resterai sempre lì, incastrato, incatenato, fermo.
Dovunque andrai non ti sposterai, non farai esperienza, non acquisirai conoscenza. T’inchioda lo scetticismo, ti paralizza la diffidenza e ti ammutolisce il tuo sfrenato odio per i tuoi limiti terreni.
La tua aderenza a modelli ideali è impossibile, la tua disciplina ti ha nauseato, la tua correttezza ti ha fatto amare da tutti, fino a odiarli. Tu e gli altri nella vostra vita mancata. Chi ti circonda sembra trovarsi bene, senza lamentele per la sua mancanza di vitalità. Ma a te riesce male. E riversi il tuo carico di tempesta sul bancone del bar, assieme alla sensazione di essere paralizzato, oggetto di pregiudizio, arrabbiato, con le guance rosse e piene di desiderio malato. L’aria sopra la tua testa forma nubi di scontento.
Come il cielo all’orizzonte, alle spalle di quel bambino sulla spiaggia.
Avevi delle scarpette molto piccole all’epoca. Dove è andata adesso la tua mente? Certamente hai sentito un profumo di ginestra, si tratta di quella donna, è lei che si è cosparsa di essenza di fiori. Ed ecco che vieni risucchiato senza nemmeno accorgertene.
Scarpette senza lacci, a strappo, molto piccole, da ginnastica. Hai dei pantaloncini e una maglietta giallina che ti hanno comprato, ti hanno messo addosso, ti ci hanno fatto andare fuori, a vedere i treni che non fermano mai davanti a te. Felicità! Treni merci senza passeggeri, treni carichi di gente che non si ferma su quella banchina, con un anziano che non sa fare altro che avere pazienza, i capelli bianchi nascosti sotto quel fazzoletto annodato, il bastone poggiato accanto a lui. Guardi nelle due direzioni, non si muove nulla, non puoi toccare la rotaia perché ti è vietato attraversare i binari senza la sua mano stretta che ti guida.
Inizi a correre per raggiungere un capo della banchina, il vento ti fa contrasto, senti una bella sensazione di energia nelle ginocchia elastiche, nelle costole sottili, nelle narici aperte a divorare aria fresca.
Senti un grido alle tue spalle, lo ignori. Tu possiedi tutto il terreno che macini sotto le piccole suole. Puoi far apparire un nuovo treno solo se conti fino a dieci, e allora sai che il campanello si rimetterà a suonare e tu potrai essere ancora affascinato dalla velocità che ti sfreccerà davanti senza fermarsi. Lo farà solo per te.
Ancora la voce, stavolta non ti giri, alla fine della banchina inizia l’erba che nasconde qualche margherita rivolta verso il sole. Sei arrivato a contare fino a sette, tra un po’, al dieci ci sarà il richiamo. Quando pronuncerai l’ultimo numero. Ti viene il dubbio che possa arrivare dall’altra parte, vorresti essere di fronte alla sua prima carrozza per inseguirlo e batterlo in velocità, ti giri su te stesso e inverti la marcia, sempre con quelle ginocchia che volano, spezzando l’aria che, pensi, è cielo, finché non diventa asfalto scricchiolante.
Esiste solo la terra, il mare e il cielo, tutto il resto è una conseguenza. Da bambino quante volte hai fatto quel gioco di provare a dominare gli eventi? Conterò fino a tre e si spegnerà la lampada del salotto! Adesso vorresti far arrivare il treno, ma hai anche il timore che non succeda, non sai se finire la conta oppure no. Non sai se vuoi scoprirlo.
Porgi un tuo nuovo profilo al vecchio, che respira pesante e gira lo sguardo verso le tue gambe, per ricadere sulla mollezza delle sue. “Guarda, c’è un altro treno, vedo le luci in lontananza, vieni a vedere nonno!” Ma sei già lontano e la tua voce si perde nella distanza di spazio e di anni.
Lo vedi qualche ora prima, a casa, mentre balla con la sua vecchia, agili come due felini. Dopo pranzo ha finito la grossa bottiglia che gl’impasta la bocca. È lì che smette di essere impaziente come quando sta sulla panchina.
Si gonfia come un ranocchio.
Per farti ridere ha pure buttato il bastone sul divano e davanti a te e alla zia anziana che ti tiene in braccio. Sculetta come un ragazzino deficiente. Voi battete le mani e ridete.
Ogni tanto cambia personalità.
È ricco. Ha perfino il giradischi. Lei, tra le sue braccia finge di non voler essere protagonista di un passato che non puoi neppure pensare. Che non vuole ricordare per non provare una triste nostalgia. Loro sono vecchi da quando sei nato. La zia si piega dal mal di pancia per le scosse incontrollate. Pare che si stia divertendo. Vedi il ciuffo argenteo del vecchio dondolare a destra e a sinistra e la pancia appena prominente tendere la camicia a mezze maniche. Lei alza le braccia, la pelle avvizzita cerca di ricadere a terra, allungandosi al di sotto delle ossa tra la spalla e il gomito. Ha la faccia rossa per lo sforzo, tu batti le mani.
Ora è dietro di te, ne senti la presenza immobile, seduta, indifferente alla tua onnipotenza.
“Nonno, sta suonando, ho contato fino a dieci e lui arriva!”
“Volere è potere”
Il campanello si esalta e ti esalta, mentre salti al limitare del gradino, pericolosamente vicino alla riga gialla che ti è stato vietato di attraversare.
Ti giri un attimo, ma lui è sempre lì, tra un po’ lo raggiungerai assieme alla potenza del motore che sfreccia a tutta velocità nel paese di transito. Ne vedi la faccia mascolina affacciarsi oltre l’erba, ha superato l’orizzonte e sta per venire verso di te.
“Nonno, arriva il treno merci, questo qui è il più grosso che ho mai visto, lo volevo, e lui è venuto!” Il treno ha portato il suo muso a un metro dal tuo corpo e tu stai cercando di restargli affiancato, salti per salutare il manovratore che è più in alto di te, ma lui non ti vede e tu perdi terreno, oramai sei alla seconda carrozza, superi il nonno urlando. Le ruote che macinano gli spazi cigolando forsennate. I tuoi piedi divorano la banchina fino a dove ti è permesso arrivare e tutta la coda di quell’immenso macchinario continua, va oltre, ti lascia indietro, proteso sul ciglio del marciapiede. Resti fermo, finché l’eco del suono di quel viaggio non ti abbandona.
Corri di nuovo verso al vecchio.
“Nonno, è passato e neanche questo si è fermato, perché la gente non resta qui e se ne va via?”
Non riesci a restare rivolto verso di lui, che il tuo nonno non se ne deve accorgere, fissi l’orizzonte, fingendo di osservare ancora la scia del treno.
Non puoi continuare a parlargli per far credere che non te ne sei accorto, non ci riesci.
Volere è potere, sì ma intanto lui non è più. Eri da solo questa volta sulla banchina.
Guardi la luce della sera che pietrifica la sua bocca immobile. Cerchi di non far vedere che hai capito, mentre giri i tacchi e scendi da solo le scale che ti portano verso casa. Eri in un bar. Un odore che quasi non avevi notato, la ginestra (o forse lo sciabordio delle onde in una risata?) ti ha portato a indossare di nuovo quelle scarpette e non vorresti mai più lasciare la stazione della tua infanzia. Ma il treno è partito da un bel pezzo. È come un romanzo che inizia e finisce in una stazione ferroviaria.
Passeggi cercando di guardarti le scarpe per non lasciare entrare le lacrime nei tuoi occhi.
Fissi fuori e parli ancora. “Domani torniamo ancora a vedere i treni nonno?”
Passa senza fermarsi
Indizio
Si avvicinava un treno merci. La banchina si mise a tremare, e a lei parve d’essere di nuovo in viaggio. E a un tratto, essendosi ricordata dell’uomo schiacciato il giorno del suo primo incontro con Vrònskij, ella capì quel che doveva fare. Dopo essere scesa con passo veloce e leggero per i gradini che andavano dalla pompa alle rotaie, si fermò accanto al treno che le passava a fianco, vicinissimo. Ella guardava il basso dei carrozzoni, le viti e le catene e le alte ruote di ghisa del primo carrozzone che scivolava lentamente e cercava di stabilire a occhio il punto di mezzo fra le ruote anteriori e le posteriori, e il momento in cui questo punto di mezzo sarebbe stato di fronte a lei. “Là,” si diceva, guardando l’ombra del vagone e la sabbia mista al carbone di cui erano cosparse le traversine “là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò finalmente da tutti e da me stessa.” Voleva lasciarsi cadere sotto il primo carrozzone che giunse col tratto di mezzo alla sua altezza; ma il sacchetto rosso, ch’ella si mise a togliere dal braccio, la tratteneva, ed era già tardi: il tratto di mezzo le era passato accanto. Bisognava aspettare il carrozzone seguente. Un sentimento simile a quello ch’ella aveva provato quando, facendo il bagno, si preparava a entrare nell’acqua, la prese ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale del segno della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi virginali e infantili, e a un tratto la tenebra che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non distoglieva gli occhi dalle ruote del secondo vagone che s’avvicinava. Ed esattamente nel momento in cui il tratto di mezzo fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro il sacchetto rosso e con un movimento leggero, come preparandosi ad alzarsi subito, si lasciò cadere in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quel che faceva. “Dove sono? che faccio? perché?” Voleva sollevarsi, fuggire; ma qualcosa di enorme, d’inesorabile la colpì al capo e la rovesciò sulla schiena. «Signore, perdonami tutto!» proferì, sentendo l’impossibilità della lotta. Un muzicjòk, intanto, brontolando qualcosa, batteva la ferraglia. E la luce alla quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’un bagliore più vivido che mai, rischiarando tutto quello che prima era nelle tenebre; poi cominciò ad affievolirsi e si spense per sempre.
Lev Nikolaevic Tolstoj
Anna Karenina
Non trovi la parola? Vuoi un indizio?
Indizio 1
Indizio 2
Nunez era sensibile alle cose belle, e gli sembrò che il bagliore sui campi innevati e sui ghiacciai che si ergevano intorno alla valle, da tutti i lati, fosse la cosa più bella che avesse mai visto. I suoi occhi andarono da quello splendore inaccessibile al villaggio ai campi irrigati, che affondavano in fretta nel buio, e improvvisamente fu colto da un’ondata di emozioni, e ringraziò Dio dal fondo del cuore per avergli dato il potere della vista.
Sentì una voce che lo chiamava da fuori il villaggio.
«Ehi tu, Bogotà! Vieni qui!»
Egli si alzò, sorridendo. Avrebbe mostrato a queste persone una volta per tutte ciò che la vista era in grado di fare per un uomo. L’avrebbero cercato, ma non trovato.
«Non muoverti, Bogotà», disse la voce.
Rise in silenzio e fece due passi furtivi allontanandosi dal sentiero.
«Non calpestare l’erba, Bogotà: non è permesso».
Nunez aveva a mala pena sentito il rumore che aveva fatto lui stesso. Si fermò, sconcertato.
Il proprietario della voce correva lungo il sentiero variopinto verso di lui. Egli tornò sul sentiero.
«Eccomi», disse.
«Perché non sei venuto quando ti ho chiamato?», disse il cieco. «Bisogna portarti in giro come un bambino? Non riesci a sentire il percorso mentre cammini?»
Nunez rise. «Lo posso vedere», disse.
«Non esiste la parola “vedere”», disse il cieco dopo una pausa. «Basta con questa follia, e segui il suono dei miei passi».
Nunez lo seguì, un po’ irritato.
«Verrà il mio momento», disse.
«Imparerai», rispose il cieco. «C’è molto da imparare nel mondo».
«Nessuno vi ha detto: “Nel paese dei ciechi l’orbo è re”?»
«Cosa vuol dire “cieco”?», chiese il cieco con indifferenza, senza voltarsi.
Passarono quattro giorni e il quinto il re dei ciechi era ancora in incognito, e si muoveva tra i suoi sudditi come un impacciato e inutile straniero.
Trovò che effettuare l’autoproclamazione era molto più difficile di quanto si era aspettato, e nel frattempo, mentre meditava il suo colpo di stato, faceva ciò che gli veniva detto e imparava le maniere e le abitudini del Paese dei Ciechi. Trovò che lavorare e andare in giro di notte era particolarmente seccante, e decise che quella sarebbe stata la prima cosa da cambiare.
Conducevano una vita semplice e alacre, queste persone, con tutti gli elementi della virtù e della felicità per come queste cose possono essere intese dagli uomini. Lavoravano duro, ma non oppressivamente; avevano cibo e vestiti sufficienti per le loro necessità; avevano giorni e periodi di riposo; facevano molta musica e cantavano spesso, e tra loro c’era amore e vi erano molti bambini. Era stupefacente con che sicurezza e precisione andavano su e giù per il loro mondo ordinato. Tutto, vedete, era stato fatto per venire incontro ai loro bisogni; ognuno dei sentieri che si irradiavano dal centro della valle aveva un angolo costante rispetto agli altri, e si distingueva per una speciale tacca in corrispondenza del suo cordolo; tutti gli ostacoli e le irregolarità dei sentieri e dei prati erano stati da lungo tempo spianati; tutti i loro metodi e le loro procedure nascevano naturalmente dalle loro particolari necessità. I loro sensi erano divenuti eccezionalmente acuti; erano in grado di udire e valutare il più piccolo gesto di un uomo a una dozzina di passi di distanza – sentivano il battito stesso del suo cuore. L’intonazione della voce aveva da lungo tempo sostituito le espressioni del viso, e il contatto i gesti, e il loro lavoro con la zappa, la pala e il forcone era perfettamente libero e sicuro. Il loro senso dell’olfatto era straordinariamente fine; erano in grado di distinguere differenze individuali con la prontezza di un segugio, e si dedicavano alla cura dei lama, che vivevano tra le rocce di sopra e si recavano al muro per mangiare e per ripararsi, con agio e sicurezza. Fu solo quando finalmente Nunez cercò di farsi valere che scoprì quanto agio e quanta sicurezza i loro movimenti potevano esprimere.
Si ribellò solo dopo aver tentato con la persuasione.
Provò dapprima, in diverse occasioni, a parlare loro della vista. «Guardate, gente», diceva. «Ci sono cose che non capite di me».
Una volta o due uno o due di loro gli diedero corda; stavano seduti con i visi abbassati e le orecchie tese verso di lui con attenzione, ed egli fece del suo meglio per spiegar loro cosa voleva dire vedere. Tra i suoi uditori c’era una ragazza, le cui palpebre erano meno rosse e infossate di quelle degli altri, cosicché si poteva quasi immaginare che ella tenesse nascosti i suoi occhi, che Nunez sperava in modo particolare di persuadere. Parlò delle bellezze della vista, del guardare le montagne, del cielo e dell’alba, ed essi lo ascoltavano con un’incredulità divertita che divenne presto biasimo. Gli dissero che non vi era proprio nessuna montagna, ma che la fine delle rocce dove brucavano i lama era proprio la fine del mondo; lì si innestava il cavernoso tetto dell’universo, da cui scendevano l’umidità e le valanghe; e quando lui sostenne insistente che il mondo non aveva né fine né un tetto come essi credevano, loro dissero che i suoi pensieri erano perversi. Il cielo, le nuvole e le stelle, per quanto lui potesse descriverli, sembravano loro un vuoto terrificante, un’assenza orribile in luogo del liscio tetto delle cose in cui essi credevano (era un articolo di fede presso di loro che il tetto della caverna fosse di una levigatura deliziosa al tatto). Vide che ciò in qualche modo li sconvolgeva.
Herbert George Wells
Il Paese dei Ciechi
Pensieri intimamente e ostinatamente inclini al male.
Soffermiamoci un po’ a considerare in che modo i contenuti consci e inconsci della mente si connettono reciprocamente. Prendiamo un esempio familiare a tutti: all'improvviso siete incapaci di ricordare ciò che avevate intenzione di dire mentre un momento fa il pensiero vi era perfettamente chiaro. Oppure, per prendere un altro caso, state per presentare un amico, e il suo nome vi sfugge proprio nel momento di pronunciarlo. Voi dite che non ce la fate a ricordarlo, ma di fatto il pensiero è divenuto inconscio o, almeno momentaneamente, si è scisso dalla coscienza. Lo stesso fenomeno si verifica a livello dei sensi. Se ascoltiamo una nota continua alla soglia dell'udibilità, il suono sembra interrompersi a intervalli regolari per poi riprendere normalmente. Tali oscillazioni sono dovute a una diminuzione e ad un aumento periodici della nostra attenzione, non ha qualche cambiamento dell’intensità della nota.
Quando qualcosa esce dal campo della nostra coscienza, essa non cessa di esistere, allo stesso modo che un'auto scomparsa dietro l'angolo della via non è scomparsa nell'aria: essa è semplicemente inaccessibile alla nostra vista. Perciò come è probabile che si possa di nuovo vedere quella stessa automobile, così possiamo incontrarci di nuovo con quei pensieri che temporaneamente sono venuti a mancare nella nostra mente.
In altri termini, una parte dell’inconscio é composta di una moltitudine di pensieri, impressioni e immagini, temporaneamente oscurati che, lungi dall'essere venuti meno completamente in noi, continuano a influenzare la nostra mente conscia. Una persona distratta o con la testa fra le nuvole attraversa la stanza per prendere qualcosa. A un tratto si ferma, perplessa: ha dimenticato ciò che andava a prendere. Le sue mani tastano gli oggetti disposti sul tavolo, come farebbe un sonnambulo: l'individuo si è dimenticato il suo scopo originario, eppure continua ad essere inconsciamente guidato da esso. In un secondo tempo si ricorda ciò che voleva: il suo inconscio glielo ha suggerito.
Se osserviamo il comportamento di un nevrotico vediamo che egli compie un certo numero di azioni e sembra che faccia tutto in maniera cosciente e intenzionale. Tuttavia, se andiamo a chiedergli le ragioni, scopriremo che è inconscio o che ha qualcosa di molto diverso nella mente. Egli ascolta ma non ode, vede eppure cieco, sa e tuttavia è ignorante. Gli esempi di questo tipo sono così comuni che lo specialista si rende subito conto del fatto che i contenuti inconsci della mente si comportano come se fossero coscienti e che in questi casi non si può mai essere certi se il pensiero, il linguaggio l’azione siano coscienti o meno.
È sulla base di questo tipo di comportamento che molti medici respingono le affermazioni dei pazienti isterici come palesi menzogne. Certamente queste persone dicono molte più cose false di noi, ma il termine menzogna non è d’uso appropriato in casi del genere. In realtà il loro stato mentale provoca un’incertezza di comportamento poiché la loro coscienza è soggetta a eclissi imprevedibili provocate dall’interferenza dell’inconscio. Anche le loro sensazioni cutanee possono rivelare simili fluttuazioni di consapevolezza. In un determinato momento la persona isterica può avvertire una puntura d’ago nel braccio e un attimo dopo lo stesso fatto può passare inosservato. Se la sua attenzione si punta totalmente su un certo oggetto, tutto l'organismo può essere completamente anestetizzato, fino a che la tensione responsabile di questo annebbiamento dei sensi non si è rilassata. A questo punto la percezione si ricostruisce subito: tuttavia, per tutto il tempo precedente, l'individuo è stato inconsciamente consapevole di ciò che stava accadendo. Il medico può osservare con estrema chiarezza tale processo quando ipnotizza un paziente del genere sopra descritto. È facile dimostrare che questi ha mantenuto una piena consapevolezza di ciascun dettaglio. La puntura d’ago nel braccio, l'osservazione fatta durante un’eclissi della coscienza possono essere accuratamente richiamate alla mente come se non ci fosse stata alcuna anestesia o dimenticanza. Ricordo una donna che venne un giorno ricoverata in clinica in preda a uno stato totale di incoscienza. Il giorno dopo, allorché riprese coscienza, essa mostrò di conoscere la propria identità, ma non sapeva dove era, come o perché vi era capitata e neppure la data. Tuttavia, dopo che io l’ebbi ipnotizzata essa mi raccontò le cause della sua malattia, il modo in cui era stata condotta la clinica e chi l'aveva ricoverata punto tutti questi dettagli poterono essere verificati. Essa fu persino in grado di dirmi l'ora del suo ricovero poiché aveva veduto un orologio nell’atrio della clinica. In stato ipnotico la sua memoria era chiara come se non avesse mai cessato di essere conscia.
Affrontando argomenti di questo tipo, dobbiamo di solito fondarci sulle testimonianze fornite dalle osservazioni cliniche. Per questo motivo molti critici sostengono che l'inconscio e tutte le sottili manifestazioni ad esso collegate appartengono unicamente alla sfera della psicopatologia. Essi considerano ogni espressione dell'inconscio come qualcosa di nevrotico di psicotico che non ha nulla a che fare con il normale stato della mente. Tuttavia, i fenomeni nevrotici non sono assolutamente prodotti esclusivi di disturbi: essi non costituiscono di fatto altro che delle esagerazioni patologiche di eventi normali e solo in grazia di questo essi risultano più evidenti dei loro corrispondenti stati normali. Sintomi isterici possono essere osservati in tutte le persone normali, ma essi sono così leggeri che di solito passano inosservati.
Ad esempio, l'oblio è un processo normale nel corso del quale alcune idee consce vengono perdendo la loro specifica energia in seguito uno spostamento della tensione su qualche oggetto diverso. Quando l'interesse si volge altrove, esso lascia in ombra le cose a cui era precedentemente riferito, nello stesso modo in cui un riflettore va a illuminare un'area nuova lasciandone un’altra al buio punto tutto ciò inevitabile poiché la coscienza può mantenere in piena luce solo poche immagini contemporaneamente è anche questa luce tutt'altro che uniforme.
Tuttavia, le idee dimenticate non hanno cessato di esistere. Benché esse non possano venir riprodotte volontariamente, tuttavia sussistono a un livello subliminale - al di sotto della soglia della memoria - dal quale possono spontaneamente risorgere in ogni momento, spesso dopo molti anni di oblio apparentemente totale.
Io mi riferisco qui a cose consciamente viste e udite e successivamente dimenticate. Tuttavia, tutti noi vediamo, ascoltiamo, odoriamo e gustiamo molte cose senza prestar loro attenzione immediata, sia perché la nostra attenzione è sviata, sia perché lo stimolo che arriva i nostri sensi è troppo leggero per lasciare un'impressione cosciente. In ogni modo, però, l'inconscio ha preso nota di tutto e queste percezioni sensoriali a livello subliminale svolgono un ruolo importante nella nostra vita di tutti i giorni. Senza che noi ce ne rendiamo conto, esse influenzano il nostro modo di reagire sia verso gli eventi che verso le persone.
Rinvenni un esempio particolarmente illuminante di questo fenomeno nel caso di un professore che aveva fatto una passeggiata in campagna con uno dei suoi allievi, tutto assorto in una impegnativa conversazione. Improvvisamente egli notò che i suoi pensieri venivano interrotti da un imprevisto flusso di ricordi della sua prima infanzia punto non riusciva a spiegarsi questa distrazione: nulla di ciò che era stato detto nella conversazione sembrava aver alcun rapporto con tali memorie. Voltandosi indietro egli si accorse di essere passato davanti a una fattoria proprio nel momento in cui il primo di questi ricordi dell'infanzia era affiorato nella sua mente. Egli propose all'allievo di tornare indietro fino al punto in cui era cominciata la sua fantasticheria. Una volta giuntovi egli avvertì un odore di oche istantaneamente si rese conto che era stato proprio esso a liberare il flusso delle memorie.
Da ragazzo aveva vissuto in una fattoria in cui si teneva un allevamento di oche e il loro odore caratteristico gli aveva lasciato un'impressione permanente anche se dimenticata. Attraversando la fattoria nel corso della passeggiata egli aveva avvertito subliminalmente l'odore, questa percezione inconscia aveva richiamato esperienze infantili da lungo tempo dimenticate. La percezione era stata subliminale poiché l'attenzione era impegnata altrove e lo stimolo non era stato abbastanza forte da distoglierla ed a raggiungere direttamente la coscienza. Tuttavia, essa aveva riportato in superficie ricordi dimenticati.
Questo effetto suggestivo o liberatore può dar ragione dell'insorgenza di sintomi nevrotici meglio di ricordi piacevoli allorché è una visione, un odore, o un suono rievocano circostanze del passato. Per fare un esempio, una ragazza può essere intenta al proprio lavoro in ufficio, e godere apparentemente di buona salute e di un umore perfetto. Un momento dopo viene aggredita da un formidabile mal di testa e mostra altri sintomi di malessere. Senza avervi prestato consciamente attenzione, essa ha nel frattempo udito risuonare lontano la sirena di una nave e ciò le ha riportato inconsciamente il ricordo di una dolorosa separazione dal fidanzato anche se aveva fatto di tutto per dimenticare. A parte i fatti di normale dimenticanza, Freud ha descritto numerosi casi che implicano l'oblio di ricordi spiacevoli che gli individui fanno di tutto per dimenticare al più presto. Come osservò Nietszche, quanto più forte l'orgoglio, tanto più ricordi sono sottoposti a scomparire. Perciò, fra le memorie perdute, non poche derivano il loro stato subliminale (e la loro incapacità di essere volontariamente riprodotte) dalla propria natura spiacevole e incompatibile. Gli psicologi le definiscono contenuti rimossi.
Un caso indicativo potrebbe essere quello di una segretaria gelosa di uno dei soci del suo principale. Essa dimentica abitualmente di invitarlo alle riunioni, benché il suo nome sia chiaramente registrato nella lista degli invitati. Tuttavia, se viene costretta a giustificarsi di questo suo atteggiamento, essa dice semplicemente di essersene dimenticata o di essere stata interrotta. Non ammetterà mai, neppure a sé stessa, i motivi reali di questa omissione.
Molti sopravvalutano erroneamente il ruolo della forza di volontà, ritenendo che tutto ciò che avviene nella loro mente venga deciso e voluto deliberatamente da essi. In realtà bisogna imparare a distinguere accuratamente fra i contenuti intenzionali e quelli non intenzionali della mente. I primi derivano dalla personalità dell'ego; i secondi nascono da una fonte che non è identica all' ego, ma costituisce l'altro lato di esso. E quest'altro lato ad essere responsabile delle dimenticanze della segretaria.
Le ragioni per cui noi dimentichiamo cose osservate o sperimentate sono numerose ed esistono altrettanti modi per richiamarle alla mente. Un esempio interessante di ciò è rappresentato dalla criptoamnesia o ricordo riposto. Ad esempio, un autore può essere intento a scrivere di getto secondo un piano prestabilito, oppure a elaborare un ragionamento o la trama di un racconto, quando improvvisamente si perde in un argomento tangenziale probabilmente si tratta di un'idea nuova, di un'immagine differente, o di un intero intreccio secondario che gli si è presentato improvvisamente di fronte. Se gli domandate che cosa ha provocato questa digressione, egli sarà incapace di dirvelo punto può darsi che egli non abbia neppure notato il cambiamento, perché benché abbia attualmente elaborato un materiale completamente nuovo e che prima gli era almeno apparentemente ignoto. Tuttavia, qualche volta è possibile dimostrare in maniera convincente che quanto egli è venuto scrivendo rivela una somiglianza sorprendente con l'opera di un autore diverso – un’opera, magari, che gli credi di non avere mai conosciuto.
Io stesso mi sono imbattuto in un esempio affascinante di questo fenomeno: si tratta del libro Così parlò Zarathustra di Nietzsche dove l'autore riproduce quasi parola per parola un incidente registrato su un giornale di bordo del 1686 punto per un puro caso io avevo letto questo episodio di vita marinara in un libro pubblicato intorno al 1835 (mezzo secolo prima che Nietzsche scrivesse la sua opera). Quando trovai lo stesso passo in Così parlò Zarathustra, rimasi colpito dalla particolarità dello stile che era diverso da quello abituale di Nietzsche punto mi convinsi che egli doveva aver visto quel libro, anche se non faceva riferimento adesso. Così scrissi a sua sorella ed essa mi confermò che lei e suo fratello avevano effettivamente letto insieme quel libro quando Nietszche aveva circa 11 anni. Dal contesto risulta, a mio parere, che Nietzsche non aveva alcuna idea di plagiare quel racconto: probabilmente dopo 50 anni esso erano inaspettatamente caduto sotto l'attenzione della sua mente conscia.
Carl Gustav Jung
L’uomo e i suoi simboli
L’allontanarsi temporaneamente dal cammino intrapreso o dalla via più dritta.
Non trovi la parola? Vuoi un indizio?
Indizio 1
Indizio 2
Diario 8
Hai sentito la Sua voce? Non è di quelle che ronzano fuori, è un pungolo nel petto.
Non sai perché hai ricordato la morte di tuo nonno, la stazione, quel bagliore di felicità, stavi pensando a tutt’altro quando improvvisamente i tuoi pensieri hanno preso una strada nuova.
Una gigantesca digressione che non ha la minima coscienza di plagiare uno o milioni di pensieri, (raccontati, immaginati o scritti) da altri.
Forse è una serata no. Prima c’è stato un pomeriggio no. La mattina era una mattina no. Non mattina, non pomeriggio, non sera.
Il tempo non passa. Sono giorni no, non ricordi nemmeno da quanto.
Da talmente tanto che c’è il rischio che nessuno si ricordi più di te e della tua esistenza, perché nei giorni no, non ci si muove. Non puoi sempre avere ciò che vuoi, ma volere è potere. Non ti dicevano così? Perché entra tutto in contraddizione?
La gente che immagini nel bar, nel futuro ti acclama dandoti riscatto. Ora però non sa neppure se sei ancora vivo o sei morto. La cosa peggiore è che quella gente non se lo chiede nemmeno. Sei stato dimenticato e tu ti sei dimenticato per primo. Uno va dal prossimo perché cerca sé stesso, l’altro perché vorrebbe perdersi. Il tuo cattivo amore per te stesso ha fatto sì che la solitudine diventasse una prigione per te.
Questa storia del no ti accompagna da non sai più nemmeno quanto tempo. Anche quel bar infine era un altro momento del tuo passato continui a immaginarlo pieno di persone ancora oggi. Oggi che sei seduto in poltrona, a dar la schiena ad una gigantesca libreria. Ti alzi con l’intento di cambiarti i vestiti. Ne metti di nuovi e puliti. Quelli che avevi addosso ti apparivano sporchi.
Per cinque minuti va meglio. La serata è meno no.
Più no, meno no. Questo è il massimo a cui puoi aspirare.
Ora ti guardi i vestiti puliti che hai messo addosso. Il pantalone non sta su. Ci vorrebbe una cintura, ma i passanti sono troppo stretti per tutte quelle che hai, non si sa perché hai comprato delle cinture dal bordo molto alto, forse perché volevi che una striscia di cuoio ti sorreggesse la vita. Colpa della moda che le fa alte le cinture: allora i pantaloni vecchi dovresti buttarli via? Va di moda il fuori moda di vent’anni prima. Il vintage. Non sei mai stato così bello, ma tanto non hai nessuno che lo possa apprezzare perché il nonno se n’è andato, il suo treno ha fischiato e la donna che ti accompagnava nei bar ora è da qualche parte. Dimenticata, come l’auto che ha girato la curva, uscendo dal tuo campo visivo.
Il ciocco di legno è tutto nero e bianco. C’è ancora un pochino di rosso se ci soffi sopra. Potrebbe sempre riprendere a battere come un cuore.
Ti viene la tentazione di andare nel vecchio bar anche oggi, ma non conosci più nessuno da quando hai perso il lavoro. Senti che da qualche parte però un tempo eri ancora soddisfatto per qualcosa.
Cerchi di ricordarti quale era quella bella notizia o quella bella aspettativa in cui sperare.
Era nel passato che eri soddisfatto, da piccolo, è che allora eri troppo piccolo e c’era qualcosa che non hai saputo neppure decifrare, ti sei ingannato. Ricordi di essere stato bambino? Credevi di avere un motivo per gioire. Invece era solo il bambino che eri con le sue tracce di esaltazione.
Questo nuovo dolore ti fa precipitare nello stato d’animo di colui che, vivendo in un incubo, quando dorme fa un bel sogno dal quale si risveglia sorridente e felice. E il sorriso finisce. Perché si è svegliato. Il ciocco di legno? Perché?
Devi prenderti una pausa, lascia la poltrona, i libri, il caminetto e i ricordi e alzati per un momento. Forse potresti prendere un treno e iniziare un romanzo in una stazione ferroviaria.
Cosa potresti fare?
Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. Nell’odore di stazione passa una ventata d’odore di buffet della stazione. C’è qualcuno che sta guardando attraverso i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar, tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi di miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone. Sono le pagine del libro a essere appannate come i vetri d’un vecchio treno, è sulle frasi che si posa la nuvola di fumo. È una sera piovosa; l’uomo entra nel bar; si sbottona il soprabito umido; una nuvola di vapore l’avvolge; un fischio parte lungo i binari a perdita d’occhio lucidi di pioggia. Un fischio come di locomotiva e un getto di vapore si levano dalla macchina del caffè che il vecchio barista mette sotto pressione come lanciasse un segnale, o almeno così sembra dalla successione delle frasi del secondo capoverso, in cui i giocatori ai tavoli richiudono il ventaglio delle carte contro il petto e si voltano verso il nuovo venuto con una tripla torsione del collo, delle spalle e delle sedie, mentre gli avventori al banco sollevano le tazzine e soffiano sulla superficie del caffè a labbra e occhi socchiusi, o sorbono il colmo dei boccali di birra con un’attenzione esagerata a non farli traboccare. Il gatto inarca il dorso, la cassiera chiude il registratore di cassa che fa dlìn. Tutti questi segni convergono nell’informare che si tratta d’una piccola stazione di provincia, dove chi arriva è subito notato. Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l’odore di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni dopo che è partito l’ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra d’averci passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall’odore della pensilina all’odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello dell’attesa, l’odore delle cabine telefoniche quando non resta che recuperare i gettoni perché il numero chiamato non dà segno di vita. Io sono l’uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica. Ossia: quell’uomo si chiama «io» e non sai altro di lui, così come questa stazione si chiama soltanto «stazione» e al di fuori di essa non esiste altro che il segnale senza risposta d’un telefono che suona in una stanza buia d’una città lontana.
Italo Calvino
Se una notte d'inverno un viaggiatore
Drin
Non trovi la parola? Vuoi un indizio?
Indizio
Diario 9
Avevi bisogno di prenderti una pausa. La musica si fa anche con le pause tra le note. Erano anni che continuavi a pigiare lo stesso tasto, questo batteva il martelletto sempre su una corda sola e un suono sempre uguale ti era diventato impercettibile. Come il segnale senza risposta d’un telefono che suona in una stanza buia.
Lo hai lasciato lì. Staccato. Sei andato via.
Una vacanza, solo. Tu e il gatto, forse se esiste, al mare, a riposare. Forse. Se riesci a superare il senso di colpa per l’abnegazione al lavoro che ti hanno inculcato da piccolo. Il tuo sacrificio. E quando rischi di provare un piccolo piacere te ne vergogni, arrossisci e speri che nessuno si accorga. C’è un risvolto positivo nello scoprire che non tutte le colpe verranno espiate, nemmeno la tua, nemmeno il tuo piacere fugace e rubato senza far male a nessuno troverà una punizione. Lo hai compreso? È un attimo di grazia comprendere, per un istante ti senti ingegnoso, spavaldo. Peccato comprendere così poche cose in una vita perché comprendere è una sensazione magnifica che si avvicina all’eterno. Il tuo spirito si fomenta e si acquieta e non sente bisogno di nulla se non di alimentare quella luce.
Hai portato con te il fuoco del caminetto senza mettere in valigia i tizzoni carbonizzati. Sono fomentatori di male perché è colpa loro se si creano più ombre. Per una volta la nota che percuoti potrebbe apparire più acuta. La distingui con un piccolo formicolio fino alle gambe. Non guastare le tue prossime notti con nuovi rimorsi di coscienza.
La casa dove stai l’hai ereditata dai tuoi nonni.
Lì non c’è nulla, solo la natura. E cemento. Ma non è natura anche il cemento stesso? E il demone non potrebbe essere bene e male insieme, superando il dualismo che limita i tuoi orizzonti? Non sai mai dove andrai con le parole, più verso il significato o verso il significante? E quale dei due è più inconscio?
Stai attento. Se continui a distrarti possono portarti via il potere con una semplice stretta di mano o di mente. Ti sei distratto di nuovo.
Si è rotto il televisore. Niente connessione.
Sei a contatto con te stesso. Se almeno ci fosse il televisore potresti tenerti aggiornato sui fatti politici, la cronaca, la crisi economica, le malattie. Sempre meglio l’ansia dell’angoscia. Mancano un po’ di impegni mondani: il corso di tali chi, i gruppi di acquisto solidale, i colleghi dell’ufficio comunale che spesso organizzano aperitivi.
Non c’è nulla.
Ti annoi.
Quando sei a casa tua, durante le giornate lavorative hai bisogno di trovare qualcosa da fare assolutamente. Non c’è nulla, neanche la natura.
Guardare la televisione ti annoia. Dopo un po’ ti rendi conto di aver terminato la giornata. Era la televisione. Che oggetto superato. Ti è servito molto per dormire nella tua amnesia, sempre meglio credersi personaggio che sentirsi privo di identità significativa.
Che cosa hai visto? Di che parlavano? Tragedie. Chi aveva ragione? Tu cosa ne pensavi? Non ricordi davvero più nulla della tua vita? Vai alla deriva? Odori, sapori, sensi al completo ti agganciano e ti fanno tornare in te.
Ti ricordi solamente delle vuote giornate di adesso, quando nei tuoi giorni peggiori ti assale una noia tale che solo il male ti porta un po’ di interesse. Anche poco tempo fa. Tutti i minuti erano uguali. I tuoi colleghi in pausa in ufficio ascoltavano il notiziario, sperando in un qualche cataclisma sensazionale. Una nave incagliata, un naufragio, uno sterminio grave, un incidente, così da parlarne per due o tre giorni e costruire una socialità tra estranei. Chi ti ha detto che devi vivere ancora in quella vasca di niente?
Te ne sei tornato al mare, dove, da piccolo con il nonno avevi vissuto delle belle giornate. Quanti anni sono passati dall’ultima volta che sei stato bambino? Una lettera è arrivata dall’ombra dentro il tuo animo per riportarti indietro.
Apri la lettera
Indizio
Allora giunse una lettera di mio padre.
Riconobbi la calligrafia sulla busta e non la aprii subito, indugiai in quel riconoscimento, e riconobbi che ero stato bambino, avevo pure avuto, in qualche modo, un'infanzia. Aprii la lettera e la lettera diceva:
Mio caro ragazzo,
Tu sai e tutti voi sapete che sono stato sempre un buon padre, e per la mamma vostra un buon marito, insomma un buon uomo, ma ora mi è successo una cosa, e son partito, ma voi non dovete giudicarmi male, sono rimasto lo stesso buonuomo che ero, e per voi tutti lo stesso buon padre, un buon amico per la mamma vostra e per di più potrò essere un buon marito per questa, diciamo, mia moglie nuova con la quale sono partito. Figli miei, io vi parlo senza vergogna, da uomo uomini, e non chiedo il vostro perdono. So di non far male a nessuno punto non a voi che siete tutti partiti prima di me e non alla mamma vostra qui in fondo tolgo soltanto il disturbo della mia compagnia. Con me o senza di me e lo stesso per lei che continuerà a cantare e fischiare nella sua casa. Vado dunque senza rimpianti per la mia nuova strada. Voi non vi preoccupate di soldi o altro. La mamma vostra non avrà bisogno di nulla; riceverà ogni mese, per intero, la mia pensione di ex ferroviere. Io vivrò di lezioni private, realizzando in tal modo anche un mio vecchio sogno che vostra madre mi aveva sempre impedito di realizzare. Però vi prego, ora che vostra madre sola andatela qualche volta a trovare. Tu Silvestro, avevi 15 anni quando ci hai lasciati ed allora, ciao, non ti sei più fatto vedere. Perché l'otto dicembre invece di mandarle la solita cartolina di auguri per l'onomastico, non ti prendi il treno e vai giù e le fai una visita?
Ti abbraccio insieme alla tua cara moglie e ai bambini e credimi aff. mo papà tuo,
Costantino.
Vidi che la lettera proveniva da Venezia, e capii che egli aveva scritto, a tutti e cinque noi figli sparsi per il mondo, con le stesse parole precise, in circolare. Era straordinario: e rilessi la lettera, e riconobbi mio padre, il suo volto, la sua voce, i suoi occhi azzurri e il suo modo di fare, mi ritrovai un momento ragazzo ad applaudirlo mentre lui recitava il Macbeth in una sala d'aspetto di una piccola stazione per ferrovieri di tutta la linea da San Cataldo a Racalmuto.
Riconobbi lui e che ero stato bambino, e pensai Sicilia, montagne in essa. Ma la memoria non si aprì in me che per quel solo riconoscer lui e ritrovarmi ragazzo ad applaudirlo, lui e il suo vestito rosso in Macbeth, la sua voce, i suoi occhi azzurri, come se lui ora stesse di nuovo recitando su un palcoscenico chiamato Venezia e di nuovo si trattasse di applaudirlo. Non si aprì dunque che appena per questo, e ritornò otturata, e io fui quieto nella mia non speranza come se mai avessi avuto 15 anni di infanzia, e di Sicilia, fichi d'india, zolfo, Macbeth, nelle montagne. Altri 15 anni erano passati dopo quelli, a 1000 km di là, dalla Sicilia e dall’infanzia, e avevo quasi 30 anni, ed era come se non avessi avuto nulla, nei primi 15, nei secondi, come se non avessi mangiato mai pane, e non mi fossi arricchito di cose e cose, sapori, sensi, in tanto tempo, come se non fossi stato mai vivo, e fossi vuoto, questo ero, come se fossi vuoto, pensando il genere umano perduto, e quieto nella non speranza. Andavo al lavoro tutte le mattine, per il mio mestiere di tipografo – lino-tipista, facevo 7 ore di lino Type al giorno, al calor grasso del piombo, sotto la visiera che mi difendeva gli occhi, e un piffero suonava in me smuoveva m topi e topi che non erano precisamente ricordi.
Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne, e li sentivo smuoversi in me, topi e topi fino a quindici volte trecentosessantacinque, e il piffero suonava in me, e così mi venne una scura nostalgia come dire avere in me la mia infanzia. E scrissi la cartolina di auguri, me la misi in tasca. Andai alla stazione per impostare, passai davanti all'atrio, era pieno di luce, e fuori pioveva, l'acqua mi entrava nelle scarpe. Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta rincasare, sempre nella quiete, nella non speranza, l'altra rivolta alla Sicilia, e in qualcosa e alle montagne, nel lamento del mio piffero interno, e in qualcosa che poteva anche non essere una così scura quiete e una così sorda non speranza punto mi era lo stesso tuttavia prendere l'uno l'altra, il genere umano era lo stesso perduto, e seppi di un treno che partiva per il Sud alle 7, da lì a dieci minuti.
Elio Vittorini
Conversazione in Sicilia
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Diario 10
Hai preso quel treno e adesso? Non vorrai non fartene nulla? Non avrai lasciato tutto a casa tua per startene qui, perché anche qui c’è un caminetto.
Non hai nulla: fogli di lavoro, computer cellulare. Niente.
È solo che ti sei portato ciò che ti affatica di più: te stesso.
Sei sempre stanco perché ti auto trasmetti in continuazione pensieri pesanti da trascinare, arrugginiti, da oliare. Sei pronto a guardare in faccia le tue paure; è indietro, nell’infanzia, credi che si sia annidato lì il drago con tutta quella schiera di mostri che ti impediscono da sempre di liberarti.
Prova a guardarti da fuori, come faccio io: stai seduto immobile e ti senti in colpa di perdere tempo, perdi ore, giorni e mesi a non essere o a identificarti nella frustrazione. Non credi che la porzione di vita che hai trascorso così sia abbastanza? Potresti aver messo una distanza tra te e la prigione mentale del tuo inesistente ufficio, o bar, aver inventato per il tuo bisogno di consolazione una donna che non c’è mai stata, ti ci sono volute voci e nutrimenti e urla chiassose di pagine letterarie e adesso, ancora a intermittenza ma più di prima, forse, riesci a scorgere solo qualche vaga apparizione di ciò che è vero. Ti aiuterò a ricordare un fatto piacevole, era qualcosa che hai perduto negli anni cedendo al conformismo: era un impulso vitale e dionisiaco, verso cosa? Come si esprimeva in te l’arte, chi ha deciso che fosse immaturo ciò che portavi con te? Perché poi hai ceduto allontanandoti per sempre da qui? Poi anni di niente, come me, come tutti. E poi di nuovo, d’un tratto, forse non è la prima volta, avverti qualcosa subliminalmente. Può essere un profumo antico. Un suono. Una caffettiera in cucina. È stata quella? Sei venuto via da quel mezzo mondo in cui galleggiavi: già da tempo non eri più in ufficio, non eri al bar. Tutto intorno a te era illusorio. Quel suono ha acceso la tua mente come infuocata di passioni dimenticate, ti ha riportato in vita, sei partito e il ragno che molto temevi di incontrare sembra scomparso. Potrebbe essere più piccolo e indifeso di come lo credevi. Sembra quasi che tu mi senta ora. Una voce che ti trascina. Non lo confidare a nessuno. È pericoloso sentire le voci dei demoni, non si sa mai se sono buona o cattiva cosa: ricorda il vitalismo di chi compie carneficine e di chi altrettanto vivo si abbandona alle passioni fino a perdersi. “La vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli intervalli. La maggior parte degli uomini, però, non conoscendo i momenti magici, finisce col vivere solo gli intervalli.”
Bisogna avere buone gambe per correre.
Potresti alzarti per restare in piedi fino alla fine in riva al mare.
Prova ad andare a fare una passeggiata. Il paese è molto cambiato; ora c’è un autobus per arrivarci. La spiaggia è attrezzata solo per persone che ci vogliano spendere tanti soldi, ma il mare è ancora sconfinato. Lo senti l’odore un po’ osceno di alghe marcescenti provenire da quella piccola barca ormeggiata? Le reti da pesca abbandonate sulla spiaggia, forse le ha portate la corrente. Non c’è mai silenzio tra le onde. Rumore di gocce sulla pietra liscia, acqua che si sgretola schiaffeggiando millesimi di sassi. E le voci lontane la cui la vibrazione arriva veloce a te. Il bambino sulla spiaggia. È sera ed è ancora lì che gioca, senza sapere che arriva la notte. Ma tu non lo avevi notato quando ti ho incontrato, ero io che lo stavo guardando. Come è possibile che tu abbia dentro di te i miei sguardi, le mie ossessioni?
La stazione è vuota e ha un’aria quasi spettrale. Ti accorgi solo ora che si sente il tintinnare della campanella nella stazione del paese accanto, probabilmente il mare conduce il suono fino a te, per regalarti un’anticipazione.
A questo punto ti trovi ad un incrocio. È per questo che molti anni fa hai deciso di non andare più avanti, di non attraversare nessun sentiero. C’è sempre una soluzione a tutto, ti hanno detto una volta.
Tranne quell’ultimo viaggio.
In effetti quando si raggiunge l'Ade tutto diviene oscuro.
Come se ne fossimo stupiti.
Come se il fatto non ci appartenesse.
Tutti possono restare senza vita su una banchina in un paese sconosciuto mentre guardano treni merci che usano ancora quelle rotaie come passaggio obbligato verso nuove direzioni.
Eccolo. Puntuale come non te lo saresti mai aspettato, il campanello che segnala un nuovo passaggio anche qui da te. È già arrivato. Stavi contando fino a dieci quella volta da piccolo, ti ricordi? Ti eri fermato all’otto.
Discendere nel regno dei morti.
Viaggio nell'Ade. — Anch'io sono stato agli Inferi, come Odisseo, e ci tornerò anche spesso; e non solo agnelli ho offerto per poter parlare con alcuni morti, piuttosto non ho risparmiato il mio stesso sangue. Furono quattro le coppie che non si negarono a me, che immolavo: Epicuro e Montaigne, Goethe e Spinoza, Platone e Rousseau, Pascal e Schopenhauer. Con questi debbo confrontarmi, se a lungo sono andato da solo, da questi voglio farmi dare ragione e torto, a questi voglio prestar ascolto quando tra loro si danno ragione e torto. Qualunque cosa io dica, decida, escogiti per me e per gli altri: a quegli otto io rivolgo i miei sguardi, e vedo i loro rivolti a me. — Mi perdonino i vivi se essi talvolta mi sembrano delle ombre, così smorte e tetre, così inquiete e, ahimè, così bramose di vita: mentre quelli mi appaiono così vivi come se ora, dopo la morte, non potessero mai più stancarsi della vita. Ma è l'eterna vitalità che conta: che cosa importa la «vita eterna» e la vita in genere!
Friedrich W. Nietzsche
Umano, troppo umano
Zone oscure
Voi che mi leggete siete ancora tra i viventi; ma io che scrivo, da molto, da molto tempo sarò partito per la regione delle ombre. Poiché, in verità, succederanno di ben strane cose, molti segreti saran rivelati, molti secoli passeranno prima che queste parole sian vedute dagli uomini. E quando le avranno vedute, gli uni non le crederanno, gli altri dubiteranno, e ben pochi troveranno materia di meditazione nei caratteri che su queste tavolette vo tracciando con uno stile di ferro.
L’anno era stato un anno di terrore, pieno di sentimenti più intensi del terrore, pei quali non c’è un nome sulla Terra. Poiché c’erano stati molti prodigi e molti segni, e da tutte le parti, sulla terra e sul mare; le negre ali della Peste s’eran largamente spiegate. Ma quelli ch’eran sapienti nelle stelle non ignoravano che i cieli aveano un aspetto di sventura; e per me, tra gli altri, il greco Oinos, era evidente che stavamo al ricorso di quel settecentonovantaquattresimo anno, in cui, all’entrata in Ariete, il pianeta Giove si trova in congiunzione col rosso anello del terribile Saturno. Lo spirito particolare dei cieli, se non m’inganno di molto, manifestava la sua potenza non soltanto sul globo fisico della terra, ma ben anche sulle anime, sui pensieri, sulle meditazioni dell’umanità.
Una notte, eravamo in sette, in fondo a un nobile palazzo in una triste città chiamata Tolemaide, seduti intorno ad alcune anfore d’un vino rosso di Chio. E la nostra camera non aveva altra entrata che un’alta porta di bronzo; e la porta era stata lavorata dall’artista Corinno, ed era d’una rara perfezione, e si chiudeva per di dentro. Del pari, dei panneggiamenti neri, proteggendo questa camera melanconica, ci risparmiavamo l’aspetto della Luna, delle stelle lugubri e delle vie spopolate: ma il presentimento e il ricordo del flagello non s’erano potuti così facilmente escludere. C’erano, intorno, presso a noi, delle cose di cui non posso render completamente ragione, delle cose materiali e spirituali, – una pesantezza nell’atmosfera –, una sensazione di soffocamento, d’angoscia e, soprattutto quel terribile modo d’esistenza che subiscono le persone nervose, quando i sensi son crudelmente viventi e svegli, e le facoltà dello spirito assopite, intristite. Un peso mortale ci schiacciava. Si stendeva sulle nostre membra, sul mobilio della sala, sulle coppe in cui si beveva; e tutte le cose parevano oppresse, prostrate in quell’abbattimento, tutto, eccetto le fiamme delle sette lampade di ferro che rischiaravano la nostra orgia. Allungandosi in minuti filamenti di luce, rimanevano tutte così, e bruciavano pallide e immobili; e nella rotonda tavola d’ebano, attorno a cui sedevamo, e che il loro chiarore trasformava in specchio, ogni convitato contemplava il pallore della sua propria faccia e il lampo inquieto degli occhi tristi dei suoi compagni. Nondimeno si mandavan delle risate, ed eravamo allegri a nostro modo – un modo isterico; e si cantavano le canzoni d’Anacreonte –, che non son che follia; e si beveva molto, quantunque la porpora del vino ci rammentasse la porpora del sangue. Perché c’era nella camera un ottavo personaggio, il giovane Zoilo.
Morto, lungo disteso e seppellito, egli era là il genio e il demone della scena. Ahimè! Non aveva parte, lui, al nostro divertimento; salvoché la sua faccia, sconvolta dal male, e gli occhi, dove la morte non avea spento che a mezzo il fuoco della peste, sembrava prendere tanto interesse alla nostra gioia quanto posson prendere i morti alla gioia di quelli che devon morire. Ma, benché io, Oinos, mi sentissi addosso, fissi su me, gli occhi del defunto, nondimeno mi sforzai di non comprendere l’amarezza della loro espressione, e, figgendo ostinatamente lo sguardo nelle profondità dello specchio d’ebano, cantai con voce alta e sonora le canzoni del poeta di Teo. Ma grado a grado il mio canto cessò, e gli echi, correndo lontano fra le nere drapperie della camera, divennero fievoli, indistinti, e svanirono. Ed ecco che dal fondo di quelle drapperie nere ove andava a morire il suono della canzone, s’arderse un’ombra, fosca, indefinita, un’ombra simile a quella d’un corpo di un uomo, quando la luna è bassa nel cielo; ma non era l’ombra né d’un uomo, né di un Dio, né d’alcun altro essere comune. E quasi rabbrividendo, oscillando per un istante fra le drapperie, rimase infine visibile e dritta, sulla superficie della porta di bronzo. Ma l’ombra era vaga, senza forma, indefinita; non era l’ombra né di un uomo né di un Dio, né di un Dio di grecia, né d’un Dio di caldea, né d’alcun altro Dio egiziano. E l’ombra riposava sulla gran porta di bronzo e sulla cornice scolpita, e non si muoveva, e non pronunciava una parola: ma si fissava sempre più, e restò immobile. E la porta sulla quale l’ombrariposava era, se ben mi ricordo, proprio di contro ai piedi del morto Zoilo. Ma noi, i sette compagni, avendo veduto l’ombra mentre usciva dalle drapperie, non osavamo contemplarla fissamente; ma abbassavamo gli occhi, figgendoli sempre nelle profondità dello specchio d’ebano. E, finalmente, io, Oinos, ardii pronunziare alcune parole a bassa voce, e domandai all’ombra il suo nome e la sua dimora. E l’ombra rispose:
“Io sono OMBRA, e la mia dimora è vicina alle catacombe di Tolemaide, e presso quelle cupe lande infernali, dove scorrono le acque impure di Caronte!”
E allora, tutti e sette, ci rizzammo inorriditi sui nostri seggi, e restammo così, tremanti, terrorizzati, convulsi; perché il timbro della voce dell’ombra non era quello d’un solo individuo, ma d’una moltitudine d’esseri; e quella voce, variando le sue inflessioni di sillaba in sillaba, veniva a caderci confusamente negli orecchi, imitando gli accenti noti e familiari di mille e mille amici scomparsi!
Edgar Allan Poe
Ombra
Bramo
Indizio
Aragne era scomparsa; e se permase a lungo nel suo antro, a curare malvagità e afflizione, e nei lenti anni di buio sia guarita dall’interno, ricostruendo i grappoli di occhi fino a che, vorace come morte, avrà ordito ancora una volta le sue trappole tremende nelle valli delle Montagne dell’Ombra, questa storia non lo racconta.
John Ronald Reuel Tolkien
Le due torri (Il Signore degli Anelli Vol. 2)
Eclissare
Diario 11
Otto, nove.
Sembra non essere così terribile la verità. E intanto l’ombra è scomparsa. Ascolta, osserva, tocca. Aspira profondamente l’aria. Assaggia. Avviene sempre durante l’estate il cambiamento: mentre sei distratto dalle onde o dal vento che si esalta attorno ai ramoscelli, mentre sorseggi lentamente degli attimi di sole lasciandoti in pace, steso su un declivio con fare incivile tutto intorno a te si sovverte. Non te ne devi fare una colpa, è una meraviglia solitaria, che non puoi condividere, quando succede ogni esser umano è ancora troppo piccolo e non si accorge del cielo che, molto lontano, proprio lì dove tramonta per ultima la luce, minaccia tempesta. Capita ad ogni bambino ma non tutti fuggono in una tana come te. Oggi la vita ti sembra piatta, mortifera, ma se la guardi con occhiali nuovi non è così: ci sono anomalie, ascensioni e discese, se non le osservi bene, non le percepisci. Osserva. L’erba è profondamente vivace, sugli alberi ci sono foglie che esplodono sui rami e fiori di ginestre corpulenti e accesi, di un giallo fragoroso. Appare misteriosamente il polline che danza a mezzaria. Lo squadri. È così difficile capire se è vero o se è artificiale. Da piccolo anche tu credevi che tutto esistesse solo in funzione di ciò che serviva a te? Il mondo, se chiudi gli occhi, si dissolve, come quando eri bambino? Il vuoto.
Immagina che quando tutto resta uguale a sé stesso, forse, non è vero. È un avvenire di plastica. Rassicurante ma quasi televisivo. È meglio se ti lasci andare alla deriva e cerchi qualcosa di più credibile. Prova ad ascoltare.
Pensi al suono del campanello della stazione: che le ferrovie sono vicine al mare e in te si evoca l’illusione che la vita si sia impegnata a mantenere una promessa di libertà. Un suono ventrale, materno, rassicurante. Una progressione di gioia e di successo. Sospiri, rivedendo quel tramonto. Non ti ha poi così tradito. Infine.
La sera al mare bisogna mangiare il gelato.
Ne prendi uno. Senti il gusto. E pensi che è buono e che è dolce salato. Sul tuo diario scrivi dolceamaro, come ti aveva detto una maestra. E tu ti eri sentito messo su un cono. E poi leccato. È ridicolo. Quando anche l’inafferrabile deve essere definito. Forse, un quaderno alla volta, ti hanno scolpito l’esistenza: forte, cristallina e affilata. Una certa precisione pigra. Guarda invece sopra di te questo infinito biancoazzurro, trapuntato di acuti in volo, abbagliato dai raggi che si ritraggono. Sembra un disegno che hai fatto su uno di quei fogli bianchi spessi che si portavano a scuola, carichi di aspettative. Perché rimuoverlo?
Non corrono tutti a gettarsi nella corrente con le tasche piene di sassi.
Senti che odore innocente ha il marciume del mare? Non è colpa delle barche ormeggiate se le alghe si sono impigliate e ora divengono putride.
Come mai ti assale la stanchezza? Ti ricordi come correvi su quella banchina? Era il nonno a stare seduto con il suo fazzoletto bianco in testa. Non vedevi in lui il tuo orizzonte e nemmeno lui capiva perché trovassi così esaltante andare a scrutare le grandi ruote dei treni merci di passaggio sulla riviera, aspirando avido l’odore avvolgente delle ginestre.
Capisci che sei stato finora in una gabbia vuota e ferrosa anche se ti pareva rassicurante. Ora senti anche l’odore metallico, sanguigno, è per questo che vuoi uscire. Hai una sorta di attenzione nuova severa, eccitata dall’ansia e dai minuti attuali.
La gente ha fatto la fila al gelato, ha scelto il gusto preferito. Tu lo sai fare? Scegliere? Divorare? Dovresti cominciare da qui, da prendere in mano la cialda polverizzabile del conogelato. Non stringere. Devi trovare la giusta forze di reazione. In un palmo, in un pensiero, nella rabbia che provi ad esserti lasciato scorrere la vita addosso. Ma ti puoi salvare. Da solo. Attento. Non vorrai finire anche tu nel fiume con le pietre in tasca?
Lo stomaco ricomincia ad assorbire gli zuccheri, perciò ti sei seduto sulla panchina, per dargli il tempo di fare il suo lavoro e, come per uscire dall’ipnosi, conterai fino a dieci. È buio.
Sapore
Osservare
Compiere sopralluoghi. Visitare un luogo in un’ora adatta per vedere come funziona normalmente. Osservare i segni del passato. Chiedersi se l’aspetto degli edifici, l’arredo delle case e i discorsi della gente mantengono il ricordo del passato, e in che modo. Nell’isba c’è un solo locale, con la stufa alla russa. I pavimenti sono di legno. Un tavolo, due o tre sgabelli, una panca, un divano uso letto, oppure un giaciglio direttamente sul pavimento. O magari non c’è nessun mobile e soltanto un piumino steso in mezzo alla stanza, su cui si vede che qualcuno ha appena dormito.
Usare l’olfatto
Sentire gli odori, individuarne la provenienza, descriverli con parole di uso comune, stabilirne la composizione chimica.
Usare l’udito
Percepire rumori, suoni e voci di sottofondo.
A Due c’è sempre tranquillità. Al tintinnio cadenzato delle catene, allo sciabordio della risacca marina e al ronzio dei fili del telegrafo l’orecchio si abitua presto, e proprio questi suoni accentuano la sensazione di un silenzio di morte. Un marchio di austerità non è impresso solo nelle pietre miliari. Se per caso qualcuno in strada si mettesse a ridere forte, ciò suonerebbe brusco e innaturale.
Usare il tatto
Toccare con le mani. Il pane era davvero disgustoso. Quando lo si spezzava si vedevano brillare al sole delle minuscole goccioline d’acqua.
Usare il gusto
Assaggiare cibo. Con il tè mi vengono servite frittelle di farina di grano, focaccia con ricotta e uova, ciambelline, panini dolci. Le frittelle sono sottili, belle unte e i panini, per sapore e aspetto, ricordano quelle pagnotte gialle e porose che gli ucraini vendono nei bazar di Taganrog e di Rostov sul Don.
Considerare i bambini
Parlare con i bambini e osservare i loro giochi per capire, tra le altre cose, il mondo degli adulti.
Anton Cechov
Né per fama, né per denaro. Consigli di scrittura e di vita
L'ultimo consiglio
Diario 12
Non hai finito di contare fino a dieci lasciando che tutti i sensi si accendessero.
È arrivato prima lui, vagone dopo vagone, infinito e sferragliante. Un istante prima! Sei stato tu questa volta? Hai parlato con il bambino che eri e hai osservato il gioco per riprenderlo e portarlo a termine. Sì. Sei stato tu.
Non solo: quel treno passa di lì perché qualcuno ha stabilito una traiettoria, qualcuno ha deciso un orario un passaggio obbligato, ci sono delle esigenze pubbliche, non ci sono state frane, non incidenti, non si è seduta una vacca sulle rotaie, non c’è stata la neve, non un’alluvione, non si è bruciato il motore, nessuno lo ha dirottato. E lui, semplicemente è passato indenne. E poi è passato perché stavi contando fino a dieci. Hai ripreso i numeri che avevi abbandonato da piccolino.
Questa volta hai sorriso e questo ha avuto un’influenza benefica su di te.
Lo sai: forze incontrollabili ti stringono e potrebbero gettarti sotto le ruote delle carrozze, lo fanno con tutti.
Quel treno appare come tutta la tua vita che scorre davanti ai tuoi occhi impotenti.
Ti viene da sorridere. Le domande ti guizzano davanti come i pesci nella corrente.
Rinunci. Il tuo stato d’animo è risvegliato, ma non è rabbia, è la voglia di quel bambino di finire i giochi della sera, stanco come te adesso. Stanco perché ha fatto una corsa forsennata. Festosamente abbracciato dalla mamma. Ha otto anni.
Hai avuto pietà per te stesso, pur sapendo che la pietà non di rado è sofferenza. Ed è il momento in cui finalmente puoi iniziare ad essere.
“Disimparasti la via” ripete la voce.
Non sai come mai e perché in quel momento e non in altri, ti sembra di aver sempre avuto il potere e non aver mai osato dominare. T’immergi in una nuova dimensione che buca, come il calore di un laser, la prima pelle dello sguardo che avevi sul mondo.
C’è qualcos’altro.
Non puoi vederlo ancora del tutto. Ti ci vorrebbe più di una vita. Ma lo intuisci.
Metti da parte per un po’ i lobi frontali e dal centro del tuo cervello si accende una nuova funzione vitale ed emozionale.
Ti senti avvolto dalle anime che sono passate prima di te su quella panchina, le ringrazi per tutto quello che hanno immaginato, e ti saluta il bambino della spiaggia, ha raccolto con tutto lo stelo una piccola ginestra flessuosa. La mamma è venuta a prenderlo per mano e a portarlo verso casa, dove lo aspetta tutto ciò che a te è stato dato, forse. Avrà un caminetto? Un nonno? Un padre lontano, un gatto da accarezzare e una libreria di vecchi volumi, quelli che si leggono per passatempo al mare? Speri di sì.
Sospiri e inizi finalmente a gustare il sapore dell’aria, mentre altre carrozze ti sfrecciano davanti assordandoti.
Il suono non esiste. Ti sei addormentato e risvegliato? È mattina. Le cicale non hanno smesso di farsi sentire, il tuo corpo è scosso da un brivido ma non lasci che il ricordo perda calore. Non c’è più un campanello a quest’ora dell’alba, i sogni sono stati clementi e insensati. E io devo tornare da me stessa.
Anche tu ti se lasciato in pace.
E le rotelle della tua mente per un istante arrestano il loro ruminare interdette. Davanti a te c’è ancora il bambino che ti osserva. Gli sorridi.
di
Francesca Sangalli
coding
Ivan Pedrini, LAC
Lingua Madre.
Ipertesto.
Un testo di Francesca Sangalli che riproduce in modo esemplificativo il meccanismo di una lettura sconfinata, che prende le mosse dall’impossibilità di concentrarsi su un unico romanzo, per poi rivelare al lettore l’apertura di infinite finestre, tentazioni, distrazioni, tra un continuo divagare e reimmergersi nella letteratura; un labirinto di letture, citazioni, annotazioni in cui un ipotetico lettore, come un esploratore, tiene un diario di bordo per non perdersi nel viaggio. Leggi.
Note d'autore
Ispirato alla distopia de “La biblioteca di Babele”, racconto di Borges, idealmente l’Ipertesto potrebbe offrire all’uomo tutta la conoscenza possibile, così come la metafora della “ragnatela vasta come il mondo”, il web. Ci si scopre immersi in un flusso continuo di rimandi testuali, simile a un portale tra voci di autori diversi. uno scavo quanto più violento e inarrestabile possibile. Un viaggio introspettivo che prende la seconda persona per entrare in un altro personaggio e così poter scavare a fondo la natura molteplice dell’umano, attraversando tutti gli scrittori che sono stati per me più significativi e che emergevano nella mia memoria sulle tracce di questa ricerca. Il percorso non si arresta e va sempre più vorticoso fino ad incontrare il mostro al centro della rete o ragnatela, o labirinto, tra letterario e poetico, coinvolgendo il linguaggio teatrale monologante ma strappandolo dall’io. Ho sperimentato una forma di conduzione manipolatoria del lettore, parlandogli direttamente.
La risposta alla ricerca di uno schema che colleghi le diverse letture l’una all’altra è molto personale, dal momento che io ho il controllo di ciò che scelgo (o almeno di questo ho l’illusione), io autore sono lo schema. Cosa conduce il mio spostarmi da una lettura all’altra? La rete è studiata in maniera sistematica ma è anche stata guidata dall’inconscio. L’inconscio, la memoria, il rimando linguistico, le sensazioni corporee conducono gli echi tra le anime degli scrittori.
Consigli d'utilizzo
Per non perderti nel flusso di coscienza troverai le parole chiave nel testo.
Ognuna di queste parole ti condurrà alla lettura successiva o al diario, il gioco si farà sempre più complesso ma se vuoi giungere al centro del labirinto dovrai essere disposto a leggere fino in fondo, scorrere il testo e capire la connessione che da un pensiero ha evocato una citazione o una nuova lettura. Se ti appropri di questo inconscio, arrivato oltre metà avrai già intuito cosa incatena i testi e li trasporta.
Se ti frustra il gioco puoi sempre leggere il testo scaricabile mediante il link "Testo lineare" situato in alto a sinistra nella schermata di lettura.
Buona esperienza! Buon rompicapo. Francesca Sangalli
Francesca Sangalli
Esordisce molto giovane come drammaturga, vincendo premi e riconoscimenti prestigiosi in ambito teatrale e cinematografico. In seguito è passata alla narrativa ed è pubblicata da DeA Planeta (gruppo De Agostini), Fausto Lupetti Editore, collabora con Salani e Mondadori. Autrice poliedrica, capace di una scrittura che spazia da tematiche di interesse civile e storico a una narrativa tagliente e dai tratti onirici, poetici, fino alla comicità. Per anni ha lavorato anche in cinema e televisione, in particolare per Fulvio Lucisano (IIF), per ITV Movie nella trasmissione Crozza nel paese delle Meraviglie, ed è autrice di sceneggiature di corti e serie d'animazione. Vive e lavora a Milano, dove insegna scrittura alla scuola Bauer.