La parola come travestimento
Credo che provare a tradurre La dodicesima notte non possa prescindere dall’abbandonarsi a questo testo anomalo, quasi onirico, dove i protagonisti emergono dall’acqua, si ritrovano in un Illiria della mente più che nel territorio balcanico a cui oggi corrisponde, si palesano improvvisamente in una strada o si manifestano quasi come apparizioni più che come veri e propri personaggi. Intendo abbandonarsi nel senso di provare a prendere idealmente parte a questo strano rito, dove ogni figura porta con sé una mancanza, o è davvero, per dirla con Carmelo Bene, “ciò che gli manca”. Per questo, probabilmente, ha grande importanza il travestimento, l’essere altro da sé : il clown Feste diventa il curato Topazio, Viola, diventando Cesario, finisce per diventare in pratica il suo stesso gemello. Ma qual è il motivo di queste continue metamorfosi? Forse tutto è racchiuso in quella dodicesima notte epifanica in cui il Bardo cala i suoi personaggi, in quel termine che egli stesso ci suggerisce fin dalla prima battuta: musica. Si parlerà di “musica”, si vivrà di musica, con ciò intendendo che le stesse parole dovranno fungere da ideale spartito per lo sviluppo della trama e scandire il ritmo emotivo dei protagonisti. E musica, naturalmente, non possono che essere le parole stesse del Bardo. Da un certo punto di vista, mi pare, La dodicesima notte è sì un gioco divertente e molto serio sull’identità, ma anche una riflessione sullo statuto di verità e menzogna che ogni parola porta con sé. Non a caso Feste, il fool, si definisce “corruttore di parole”, in un mondo in cui le parole, fondendosi e confondendosi, diventano quasi gratuite, inutili, come se avessero perso l’area di significato a cui si riferiscono.
L’atto di recitare una parte è, naturalmente, l’altra caratteristica dominante del testo, diretta conseguenza del non essere mai ciò che realmente si vorrebbe o dovrebbe essere. Così il gioco meta-teatrale pervade tutto il testo, e viene esplicitato da Viola/Cesario di fronte a Olivia: “io non sono ciò che recito” (cfr. “I am not that I play”, I, V, 189); in questa versione si è cercato di amplificare gli innumerevoli rimandi alla pratica scenica, al punto da caratterizzare il ritrovamento della lettera da parte di Malvolio come un’autentica performance comica. Come sempre, la musica del Bardo contiene ogni registro, può essere melodia ma anche dissonanza, alta e solenne come triviale; per questo non ho omesso anche le parti in cui essa suona, appunto, scoordinata, apparentemente improvvisata o addirittura volgare. Credo che tale operazione possa inserirsi nel tentativo di dotare ogni personaggio di una lingua propria, come avviene nel testo originale. Così Maria, Sir Toby, Sir Andrew, annegata dai fumi di quell’alcool dal quale si separano con una certa ritrosia, come ho cercato anche di mantenere alcune sgrammaticature presenti nel linguaggio di Sir Andrew. È fondamentale, in questo caso, lo status sociale a cui i personaggi appartengono, che dà loro sfumature del tutto particolari. Viola e Sebastian sono gemelli di alto lignaggio, sanno e possono parlare a più livelli, e, nel caso di Viola diventato Cesario, è la parola stessa che ne connota il travestimento. Così non sorprende come i due gemelli possano utilizzare, quando necessario, una lingua “alta”, così come può farlo Antonio, pur eccedendo in virtuosismi letterari che lo rendono fuoriluogo. Abbastanza simile è il caso di Orsino, che, nonostante una buona padronanza della lingua, a volte prova ad utilizzare periodi poetici che non gli appartengono, e che, a ben guardare, sono quasi territorio esclusivo dei gemelli. Lo status sociale ed economico è molto, ma non tutto, sembra però dirci il Bardo. È forse questo che intrappola Malvolio, azzardo, che delle frequentazioni di alto grado ha preso l’affettazione della lingua e delle pose, ma resterà confinato, in fondo, al grado sociale in cui è fin dall’inizio, che è forse la vera dannazione della burla.
Rispetto alla questione delle differenze sociali mi pare interessante come Shakespeare sembri attribuire le parti in versi ai personaggi di più altro grado, mentre confina nella prosa gli altri: ancora una volta le parole e la struttura del discorso sono il fondamento di questa notte di sogno, dove grande rilievo hanno anche i giochi con le parole stesse, i cosiddetti puns. Ho provato a tradurre questi ultimi con una certa libertà semantica, essendo alcuni, nei fatti, praticamente intraducibili; sono però parte fondante del linguaggio del fool, che qui è stato tradotto con “idiota”; la ragione è proprio nella natura dei giochi di parole che il fool stesso inscena, dove più che alla follia o alla pazzia si fa riferimento all’idiozia del mondo che lo circonda, che Feste stigmatizza fino al ridicolo. Così alcuni nomi di personaggi sono stati tradotti dall’inglese nel corrispettivo italiano, in quanto già identificativi della figura di riferimento; il caso più emblematico è, credo, Andrea Guancia-pallida (Aguecheeck). Anche i puns, naturalmente, fanno parte di quel gioco della lingua che tende a scivolare dal significato per farsi puro significante musicale; insieme a Giovanni Ortoleva, che molto ha lavorato con me sulla dicibilità del testo e quindi sullo “spartito” da dire, abbiamo cercato di restituire almeno parte di questa sostanza testuale fatta di note a volte in rima, come spesso accade in Shakespeare, dove l’uso di questa figura retorica segnala quasi sempre il dovere di una riflessione sullo statuto di verità di un’affermazione. Il tutto nell’ottica di provare ad addentrarci in questa ipotetica notte dove tutto sembra possibile, perché tutto sembra piuttosto che è, nel travestimento infinito che solo la parola può indossare.