Quando ho iniziato a ragionare intorno al concetto di vecchiaia, mi sono trovata ad affrontare un tema socialmente familiare ma lontano dal mio mondo personale.
E come quando ci si prepara ad affrontare un viaggio ho iniziato ad ‘attrezzarmi’.
Arriva un primo inciampo, la pandemia. Nel vuoto e nella cupezza di quel momento di mezzo, mi sono dedicata alla lettura, incontri con psichiatri, filosofi, neurologi, operatrici e operatori delle case anziani.
Tra le letture rivelatrici Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare di Jean Améry. Ha rivelato in me il cinismo che rende “forti” nell’affrontare la paura e che si applica alle cose sconosciute. Améry riflette sul vissuto, sui segni che la vita lascia sul nostro corpo, registrando con la maggiore lucidità e fedeltà possibili i processi nei quali si trova invischiato chi invecchia.
Salvatore Settis è stato un altro compagno di viaggio. Col suo ragionare su Chronos, tempo della produttività ed efficienza, e Kairos, della riflessione sulla qualità del tempo, ovvero l’abilità di fare la cosa giusta al momento opportuno. Insieme a loro, Roland Barthes, Filottete, Giovanni Gurisatti, e altri.
Invecchiare (e ora aggiungo vivere) bene è il compito di ogni istante della vita, come diceva Schopenhauer, non nascondendo la terribile sensazione che “Nilo stia ormai arrivando al Cairo”.
Ci si aspetta di invecchiare, senza “inciampo”. Ma la natura può scegliere senza il nostro consenso.
Inizio a riflettere sulla finitezza umana in un’epoca dove in ogni modo si cerca di contrastare le regole biologiche, allontanare e rimuovere la fine, rimuovere la morte.
Nel confronto reale con le persone ospiti delle case anziani, mi si è invece ribaltato il concetto del “mondo fuori”, gestito da Chronos, e si è messo a fuoco il valore di Kairos, il momento giusto dove qualcosa di speciale accade.
Negli incontri è accaduto che la senilità perdesse il suo statuto meramente bio-cronologico e acquisisse un valore pratico-tipologico di saggezza e di accettazione delle regole, del limite, compreso quelle che la malattia impone. Un processo meno intellettuale, meno ‘ameriano’,e più in accordo con la natura potente ed assoluta che ha facoltà di piegare gli eventi, anche i più nefasti, e trasformarli in speranza, in valore.
Durante questi scambi ho avuta la necessità di fermare Kairos, attraverso l’Ars, il valore artistico del fare prendendo il calco delle mani di tutte le persone intervistate, come un certificato eterno di presenza. Mani, simbolo che troveremo anche nella scelta scenografica.
Il testo, scritto a quattro mani con Angela Dematté, non è autofiction ma necessità di entrare nella visione della paura, della perdita del controllo.
Anna (Roberta Bosetti in scena) è simbolo di quello che ci affrettiamo a togliere dalla vista, ogni segno dell’umana debolezza, della fine senza traccia del nostro passaggio sulla terra.
Un percorso che si sviluppa contemporaneamente su tre piani, la memoria (come ricordo), il presente (come riflessione) e il futuro (come paura).
Tempi che si intersecano e si sovrappongono a ritmo sincopato, analizzati o immaginati da una donna che fa, o vorrebbe fare, il punto della sua vita, delle scelte, delle gioie e dei rimpianti. Che diventano spazio delimitato in cui Anna si muove, ma anche scelta drammaturgica o, per meglio dire, rafforzativa del testo.
Lo spazio/scena è costruito sulla proiezione della costruzione degli accadimenti nella mente di Anna. Da un esterno che ci mostra il mondo reale di Anna (video iniziale), entriamo nello spazio teatrale che rappresenta la sua mente, che sa dividere lucidamente lo spazio della sua paura: spazio bianco per non permettere che nulla venga assorbito, spazio color tabacco ossia spazio della memoria: dove ci viene proposta la costruzione dei suoi ricordi attraverso gli oggetti, in una visione scenografico-drammaturgica.
Alcune cose da mettere in ordine per cercare di oltrepassare la paura di una possibile inaspettata malattia, attraverso il rituale, il gesto ripetuto, la preghiera. Come tutti i rituali, la ripetizione afferma delle certezze e dà forma alla speranza di Anna e all’accettazione degli eventi non controllabili.
Giacomo (Giacomo Toccaceli) diventa la figura elaborata dalla mente della protagonista, colui che l’aiuta ad orientarsi tra i fantasmi.
Capace, come dice Schopenhauer, di una “estetica dell’esistenza” (L’arte di invecchiare ovvero Senilia).