Dopo Il gabbiano e Zio Vanja, Leonardo Lidi chiude la sua trilogia su Anton Čechov con Il giardino dei ciliegi, conducendo il pubblico in un giardino/teatro ormai inutile che vive solo nel ricordo dei suoi interpreti.
Scritta tra il 1902 e il 1903, e rappresentata per la prima volta nel 1904 – sei mesi prima della morte del drammaturgo russo – al Teatro d’Arte di Mosca, Il giardino dei ciliegi è l’ultima nonché la più lirica delle opere teatrali di Čechov.
Lo spettacolo narra la vicenda dell’aristocratica Ljubov’ Andreevna Ranevskaja che, dopo aver condotto una vita dissoluta all’estero, ritorna in patria per rimettere ordine al suo patrimonio. Lopachin, figlio arricchito di un vecchio servo, le consiglia di lottizzare lo splendido “giardino dei ciliegi” ma, incapace di prendere decisioni, Ranevskaja rifiuta, fino al momento in cui la sua intera proprietà deve essere venduta per fare fronte ai debiti. Ad acquistarla sarà proprio Lopachin che, scacciati i vecchi padroni, abbatte i ciliegi del giardino. Resterà nella casa solo il vecchio e dimenticato servo Firs…
“Leggendo Il giardino dei ciliegi di Čechov – dichiara Lidi – mi è sempre sembrato palese, e magari ho sempre sbagliato, che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro. Ed avendo avuto questo progetto una validità politica dal suo principio, mi sembra stimolante chiudere il cerchio con un testo così profondo nelle sue domande. Un testo, l’ultimo del drammaturgo russo, che presenta a tratti monologhi più concettuali e smaccatamente filosofici rispetto ai precedenti, ma che continua a sballottarci da un personaggio all’altro, spostando la ‘ragione’ su più punti e facendoci letteralmente girare la testa. Termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte. Ecco, forse, cosa vuol dire drammaturgia. Ecco perché Čechov, sopravvissuto al tempo, dovrebbe essere il maestro di riferimento del teatro del domani: un simpatico individuo che, prendendosi un po’ in giro, immette generosamente una riflessione nell’altro. Con la cura verso l’altro e la noncuranza del proprio io. In un teatro dove bisogna autodefinirsi pedagoghi e maestri per salvarsi dalla mediocrità, Čechov ci rassicura nel dubbio, citando Amleto attraverso le mani troppo in movimento di Lopachin, e ci ricorda che il dubbio fa parte del nostro mestiere e che senza di quello non potremmo sopravvivere, che senza il dubbio la creatività perde appetito.”