Il pluripremiato autore e regista italiano Liv Ferracchiati indaga, a partire dal celebre romanzo di Thomas Mann, il rapporto tra bellezza e atto creativo. Un incontro tra pensiero e corpo, scrittura e danza, tra realtà e immaginazione, nello spazio potenziale che si crea tra due persone che si conoscono e si percepiscono solo attraverso lo sguardo.
Una macchina fotografica su un treppiede al limitare delle onde e uno scrittore che muore su una spiaggia per aver mangiato delle fragole contaminate dal colera, simbolo dell’inesplorato che c’è in ognuno di noi.
Quello di Ferracchiati non è un adattamento teatrale de La morte a Venezia di Thomas Mann, ma un percorso scenico liberamente ispirato al celebre romanzo che combina tre diversi linguaggi: parola, danza e video. Distaccandosi dal tema dell’omoerotismo e della differenza d’etá, rimane l’incontro a Venezia tra Gustav Von Aschenbach e Tadzio, rimane la morte.
In scena, due sconosciuti vivono ciò che Mann riassume così: “Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo”.
Il tentativo è di avvicinare questi due personaggi a noi e, allo stesso tempo, di raccontare la fatica di scrivere e di come questa fatica, alla fine, sia squarciata da momenti rari, bellissimi e terribili, fatti di incontri con altri esseri umani. Ironicamente, terzo personaggio è la Parola, che prima cerca un’armonia in una forma cristallizzata e poi si libera, si concretizza, si accende, ritrova una sua forma estrosa, per quanto ridicola e vana di fronte all’irraccontabile.