Il giovane fiorentino Giovanni Ortoleva, menzione speciale nel concorso “Registi under 30” della Biennale di Venezia 2018, firma adattamento e regia de La dodicesima notte (o quello che volete), considerata da molti critici la migliore commedia di Shakespeare. Composta intorno al 1600, è l’ultima commedia giocosa del Bardo prima della stagione delle grandi tragedie e delle commedie nere.
Sulle coste dell’Illiria, l’amore si diffonde a ritmo endemico. Il duca Orsino è innamorato di Olivia, ricca contessa che si nega alla sua vista per onorare il ricordo del fratello scomparso. Quando nel paese arriva Viola, una giovane reduce da un naufragio che prende servizio dal duca travestendosi da uomo col nome di Cesario, la ragazza si innamora perdutamente di Orsino e fa innamorare di sé la contessa Olivia, creando un triangolo irrisolvibile. Nel frattempo, presso la corte di Olivia, il maggiordomo Malvolio viene beffato dagli altri cortigiani – il fool Feste, la cameriera Maria, Sir Tobia e Sir Andrea (amico di Sir Tobia e pretendente di Olivia) –, i quali gli fanno credere di essere amato dalla padrona. A complicare ulteriormente la situazione arriverà in Illiria anche il gemello creduto morto di Viola, Sebastiano; dopo una lunga serie di fraintendimenti e imprevisti, la storia troverà finalmente il suo “lieto” fine.
Una commedia sorprendente, amara ma lieve, surreale ma terrena, profondamente malinconica e irresistibilmente divertente.
di
William Shakespeare
traduzione
Federico Bellini
adattamento e regia
Giovanni Ortoleva
con (in ordine alfabetico)
Giuseppe Aceto
Alessandro Bandini
Michelangelo Dalisi
Giovanni Drago
Sebastian Luque Herrera
Anna Manella
Alberto Marcello
Francesca Osso
Aurora Spreafico
scene
Paolo Di Benedetto
costumi
Margherita Baldoni
luci
Fabio Bozzetta
progetto sonoro
Franco Visioli
assistente alla regia
Alice Sinigaglia
assistente scenografo
Andrea Colombo
direttore di scena e capo macchinista
Stefano Orsini
capo elettricista e datore luci
Fabio Bozzetta
fonico
Nicola Sannino
sarta realizzatrice e di scena
Margherita Platé
scene realizzate da
Allestimenti Arianese srl
produzione
LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con
Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Centro D'arte Contemporanea Teatro Carcano, Arca Azzurra
Parlare da soli
All I have is my love of love
and love is not loving
(David Bowie, Soul Love)
Ogni volta che mi viene chiesto di raccontare di cosa parla La dodicesima notte faccio una confusione terribile. Dovevo prepararmi meglio, penso, mentre mi scuso con l’intervistatore e riinizio da capo a districare la matassa.
C’è Viola, una ragazza scampata a un naufragio, che si traveste da ragazzo e va a servire il conte Orsino, di cui si innamora; il conte la/lo manda a recapitare i suoi messaggi d’amore alla contessa Olivia, di cui è innamorato, la quale si innamora del messaggero stesso; ne risulta un triangolo amoroso troppo intricato per essere risolto dagli esseri umani.
Tutto qua? No, affatto. Olivia ha un cameriere, Malvolio, innamorato della sua padrona, che è impegnato nell’ostacolare i divertimenti del resto dei cortigiani, e che di questi cortigiani diventerà la vittima sacrificale, in uno scherzo che ne eccede completamente la misura e si avvicina al sequestro di persona.
Non è finita. C’è anche il gemello della giovane Viola, creduto morto nel naufragio, che improvvisamente si presenta alla corte del re Orsino generando una serie infinita di equivoci e scambi di persona.
A questo punto l’intervistatore, che non conosce il testo, mi fa un sorriso accomodante e passa alla prossima domanda (di solito è sull’attualità o la scenografia) e io resto con l’impressione di non avere risposto alla domanda. Di cosa parla La dodicesima notte? Cos’è questo strano oggetto, ricco di mondi, motivi e trame come un opale?
Mi è sempre sembrato assurdo definirla una commedia romantica; è difficile non notare come l’amore, nel testo, sia spesso associato alla malattia e come le frequenti dichiarazioni d’amore siano contorte, auto-riferite, deliranti. Eppure, non si parla d’altro che d’amore in questa strana Illiria in cui Shakespeare ha voluto ambientare la sua commedia; vertono sull’amore tutti i discorsi dei nobili, sono d’amore le canzoni che vengono chieste al fool dagli ubriachi… Si potrebbe allora dire che La dodicesima notte non è una commedia d’amore ma una commedia sull’amore, sull’ossessione per l’amore che diventa ideologia e quindi malattia della mente.
Ogni personaggio infatti è completamente assorbito dalla propria malattia: Orsino dalla propria passione virile, continua affermazione della propria potenza; Olivia dalla volontà di possesso e affermazione di rango; Malvolio dal self-love, amore di sé e volontà di realizzazione… Solo Viola sembra essere estranea a questo virus, e non è un caso che sia una straniera in Illiria, terra che rimanda in modo chiaro a iill (malato) ed illusion (illusione), oltre che a delirium (delirio). Una strana terra i cui abitanti si illudono di parlare agli altri ma parlano sempre da soli. Di questo, per me, parla il testo. Ma intanto l’intervista è andata avanti.
Perché Viola è interpretata da un ragazzo, mi stanno chiedendo? Lo sapevo che sarebbe arrivata questa domanda, ma è sbagliata, dico sorridendo. Nessun sorriso dall’altra parte. Imbarazzo.
Quello che voglio dire, riprendo balbettando, è che non è tanto un ragazzo a interpretare una ragazza, ma la stessa persona a interpretare i due gemelli Viola e Sebastiano. Avrei potuto scegliere un attore come un’attrice, e mi sono permesso di decidere in base alle qualità dell’attore piuttosto che al suo sesso e alla sua apparenza. È il cosiddetto blind casting, una cosa ormai sdoganata nelle grandi serie tv. L’intervistatore sorride, l’ho ripreso. Per farsi capire in fondo basta parlare un’altra lingua.
Ma perché lo stesso attore per i due ruoli? Il meccanismo scenico che vede due gemelli abitare lo stesso spazio e trarre in inganno chi li incontra è uno dei fondamenti del teatro occidentale, ma nella Dodicesima ha una particolarità; la dipendenza assoluta che c’è tra i due. Appena Viola appare in scena si chiede come è possibile che lei sia viva se il fratello è morto; e dunque, se lei è viva, allora il fratello deve essere vivo. Non c’è logica apparente in questa battuta, ma La dodicesima notte trova i suoi significati oltre l’apparenza; il legame tra i due gemelli è tale che dalla vita di uno dipende quella dell’altro. “Una faccia, una voce, un abito e due persone”; due anime, inconsapevoli di abitare lo stesso corpo.
Ma siamo andati avanti, e io sono sempre indietro. Mi sta chiedendo dei legami con l’attualità, perché rappresentare questo testo oggi. Odio questa domanda, ma è inevitabile. Infatti su questa mi sono preparato.
Nell’Illiria di Shakespeare i discorsi sull’amore nascondono quello su cui davvero si fonda la società; una rigida divisione in classi sociali, a cui i personaggi tengono in modo carnale (basti vedere quante parole la contessa Olivia, mentre soffre per la passione per il giovane messaggero, dedica al suo rango). Tanto che nella sua solitudine il cameriere Malvolio, vero protagonista tragico del testo, non sogna di unirsi fisicamente alla contessa Olivia, ma di essere conte; ciò che di osceno c’è nella sua fantasia non è quindi la conquista erotica, ma la scalata sociale, che un sistema di caste non può tollerare, e dunque punisce. L’amore, l’ideologia romantica non sono che fumo negli occhi con cui difendere le divisioni di una società classista. Mi sembra che non valga neanche la pena di sottolineare come questo si leghi al momento storico che stiamo vivendo, concludo.
Però adesso l’intervistatore è confuso. Era convinto che la protagonista fosse Viola ma dopo questo discorso su Malvolio non è più sicuro. Non posso aiutarla, dico sorridendo, a volte io penso che la protagonista sia Maria. E chi è Maria, mi chiede? La cameriera di Olivia, innamorata di ‘ser Tobia, che architettando lo scherzo ai danni di Malvolio si guadagna il suo amore. L’intervistatore sprofonda lo sguardo sui suoi appunti. Ma in fondo, chiedo per rompere l’imbarazzo, c’è davvero sempre bisogno di un protagonista? L’uomo alza gli occhi dal foglio e mi guarda, in silenzio. Grazie per il tempo concessomi, dice dopo un po’ in modo poco convincente, ci vediamo allo spettacolo. Posso avere una bozza dell’intervista prima della pubblicazione, gli chiedo dandogli la mano sulla porta? Mi guarda a lungo, senza darmi la mano. Poi, voltandosi verso l’ascensore, sussurra: farewell.
La parola come travestimento
Credo che provare a tradurre La dodicesima notte non possa prescindere dall’abbandonarsi a questo testo anomalo, quasi onirico, dove i protagonisti emergono dall’acqua, si ritrovano in un Illiria della mente più che nel territorio balcanico a cui oggi corrisponde, si palesano improvvisamente in una strada o si manifestano quasi come apparizioni più che come veri e propri personaggi. Intendo abbandonarsi nel senso di provare a prendere idealmente parte a questo strano rito, dove ogni figura porta con sé una mancanza, o è davvero, per dirla con Carmelo Bene, “ciò che gli manca”. Per questo, probabilmente, ha grande importanza il travestimento, l’essere altro da sé : il clown Feste diventa il curato Topazio, Viola, diventando Cesario, finisce per diventare in pratica il suo stesso gemello. Ma qual è il motivo di queste continue metamorfosi? Forse tutto è racchiuso in quella dodicesima notte epifanica in cui il Bardo cala i suoi personaggi, in quel termine che egli stesso ci suggerisce fin dalla prima battuta: musica. Si parlerà di “musica”, si vivrà di musica, con ciò intendendo che le stesse parole dovranno fungere da ideale spartito per lo sviluppo della trama e scandire il ritmo emotivo dei protagonisti. E musica, naturalmente, non possono che essere le parole stesse del Bardo. Da un certo punto di vista, mi pare, La dodicesima notte è sì un gioco divertente e molto serio sull’identità, ma anche una riflessione sullo statuto di verità e menzogna che ogni parola porta con sé. Non a caso Feste, il fool, si definisce “corruttore di parole”, in un mondo in cui le parole, fondendosi e confondendosi, diventano quasi gratuite, inutili, come se avessero perso l’area di significato a cui si riferiscono.
L’atto di recitare una parte è, naturalmente, l’altra caratteristica dominante del testo, diretta conseguenza del non essere mai ciò che realmente si vorrebbe o dovrebbe essere. Così il gioco meta-teatrale pervade tutto il testo, e viene esplicitato da Viola/Cesario di fronte a Olivia: “io non sono ciò che recito” (cfr. “I am not that I play”, I, V, 189); in questa versione si è cercato di amplificare gli innumerevoli rimandi alla pratica scenica, al punto da caratterizzare il ritrovamento della lettera da parte di Malvolio come un’autentica performance comica. Come sempre, la musica del Bardo contiene ogni registro, può essere melodia ma anche dissonanza, alta e solenne come triviale; per questo non ho omesso anche le parti in cui essa suona, appunto, scoordinata, apparentemente improvvisata o addirittura volgare. Credo che tale operazione possa inserirsi nel tentativo di dotare ogni personaggio di una lingua propria, come avviene nel testo originale. Così Maria, Sir Toby, Sir Andrew, annegata dai fumi di quell’alcool dal quale si separano con una certa ritrosia, come ho cercato anche di mantenere alcune sgrammaticature presenti nel linguaggio di Sir Andrew. È fondamentale, in questo caso, lo status sociale a cui i personaggi appartengono, che dà loro sfumature del tutto particolari. Viola e Sebastian sono gemelli di alto lignaggio, sanno e possono parlare a più livelli, e, nel caso di Viola diventato Cesario, è la parola stessa che ne connota il travestimento. Così non sorprende come i due gemelli possano utilizzare, quando necessario, una lingua “alta”, così come può farlo Antonio, pur eccedendo in virtuosismi letterari che lo rendono fuoriluogo. Abbastanza simile è il caso di Orsino, che, nonostante una buona padronanza della lingua, a volte prova ad utilizzare periodi poetici che non gli appartengono, e che, a ben guardare, sono quasi territorio esclusivo dei gemelli. Lo status sociale ed economico è molto, ma non tutto, sembra però dirci il Bardo. È forse questo che intrappola Malvolio, azzardo, che delle frequentazioni di alto grado ha preso l’affettazione della lingua e delle pose, ma resterà confinato, in fondo, al grado sociale in cui è fin dall’inizio, che è forse la vera dannazione della burla.
Rispetto alla questione delle differenze sociali mi pare interessante come Shakespeare sembri attribuire le parti in versi ai personaggi di più altro grado, mentre confina nella prosa gli altri: ancora una volta le parole e la struttura del discorso sono il fondamento di questa notte di sogno, dove grande rilievo hanno anche i giochi con le parole stesse, i cosiddetti puns. Ho provato a tradurre questi ultimi con una certa libertà semantica, essendo alcuni, nei fatti, praticamente intraducibili; sono però parte fondante del linguaggio del fool, che qui è stato tradotto con “idiota”; la ragione è proprio nella natura dei giochi di parole che il fool stesso inscena, dove più che alla follia o alla pazzia si fa riferimento all’idiozia del mondo che lo circonda, che Feste stigmatizza fino al ridicolo. Così alcuni nomi di personaggi sono stati tradotti dall’inglese nel corrispettivo italiano, in quanto già identificativi della figura di riferimento; il caso più emblematico è, credo, Andrea Guancia-pallida (Aguecheeck). Anche i puns, naturalmente, fanno parte di quel gioco della lingua che tende a scivolare dal significato per farsi puro significante musicale; insieme a Giovanni Ortoleva, che molto ha lavorato con me sulla dicibilità del testo e quindi sullo “spartito” da dire, abbiamo cercato di restituire almeno parte di questa sostanza testuale fatta di note a volte in rima, come spesso accade in Shakespeare, dove l’uso di questa figura retorica segnala quasi sempre il dovere di una riflessione sullo statuto di verità di un’affermazione. Il tutto nell’ottica di provare ad addentrarci in questa ipotetica notte dove tutto sembra possibile, perché tutto sembra piuttosto che è, nel travestimento infinito che solo la parola può indossare.
Nasce a Firenze nel 1991. Dopo aver conseguito una laurea in Psicologia cognitiva all’Università di Trento, si diploma in Regia teatrale presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano nel 2017. L’anno successivo riceve la menzione speciale dalla Biennale di Venezia all’interno del concorso “Registi under 30”, ed è invitato due volte a presentarvi i suoi lavori. Nel 2019 vi debutta con Saul da André Gide, scritto insieme a Riccardo Favaro, e nel 2020 con I rifiuti, la città e la morte di R. W. Fassbinder, prodotti dal Teatro della Tosse di Genova. Nel 2021 firma la regia de La tragica storia del dottor Faust, liberamente tratto da Christopher Marlowe; con questo spettacolo, prodotto dal Teatro della Tosse, chiude la propria trilogia sui personaggi che si sono ribellati a Dio, iniziata con Saul. Nello stesso anno debutta al cinema come autore e regista: il suo cortometraggio Autoritratto con arma viene selezionato dal Torino Film Festival e riceve il Premio Ermanno Olmi. Nel 2022 inizia un nuovo percorso teatrale sull’amore romantico, volto a metterne in discussione e ribaltarne la visione canonica, con Lancillotto e Ginevra, scritto insieme a Riccardo Favaro e prodotto dal Teatro Metastasio di Prato. È regista residente al Teatro della Tosse per il triennio 2021-2024. Del suo lavoro il New York Times ha scritto che “dimostra una promessa e un’immaginazione degni di nota”.
LAC, Lugano
28.02 - 01.03.2023
Teatro della Tosse, Genova
09 - 11.03.2023
Trailer
Foto di scena
Intervista a Giovanni Ortoleva
La dodicesima notte a Turné, RSI LA1
Giovanni Ortoleva parla di Shakespeare su RSI Rete Due