Dialogo sul tema del contemporaneo

Carmelo Rifici e Paola Tripoli

Paola Tripoli

Buongiorno direttore, cinque anni di lavoro insieme e ce l'abbiamo fatta. Ricordi il nostro "primo appuntamento"? Era il 2015.

Carmelo Rifici

Certo che si. Eravamo ancora nella piccola stanzetta di Villa Saroli. Non era cominciata molto bene la nostra conoscenza eh!

Paola Tripoli

In realtà non ho fatto che dire la verità... forse con un piglio un po': "adesso ti faccio vedere cosa è il FIT". Era che noi, indipendenti, a Lugano, si era abituati ad essere molto aggressivi per ottenere un risultato...ora, a distanza di soli cinque anni siamo qui per confrontarci sul significato del CONTEMPORANEO in teatro.

Carmelo Rifici

Dopo due soli incontri ci siamo subito intesi. Peraltro mi sembra che nonostante le nostre differenti provenienze artistica, fosse evidente la nostra sintonia sulla proposta di un teatro contemporaneo, che guardi al presente in modo critico e analitico. Questo però poneva un problema ad entrambi: la stagione del Lac non poteva esaurirsi in una proposta di tradizione, ma doveva e voleva esplorare campi di indagine che fino al mio arrivo erano competenza del festival.

Paola Tripoli

Quella parte della programmazione LAC che da anni consiglio agli spettatori del FIT e che ho chiamato "un festival lungo un anno".

Carmelo Rifici

Certo, una compenetrazione organica e coerente tra programmazione del LAC e del FIT. Il LAC è un teatro per tutti, ma proprio per questo, non può sottrarsi alla sua vocazione di essere un teatro del presente, che ci parla. Verso questo pubblico vivo e attento abbiamo un dovere morale. Il teatro non è un luogo rassicurante, anzi è proprio il contrario, è lo spazio giusto in cui mettere tutto in discussione, creare caos e ordine in un discorso sempre in divenire. Un discorso sull'umano. E gli uomini non sono una specie rassicurante.

Paola Tripoli

Sono anni che parliamo e mostriamo al nostro pubblico la nostra visione di teatro contemporaneo. Sono convinta che dopo gli anni della "contrapposizione necessaria" tra classico e innovazione, tra regia e post drammatico, sia arrivato il tempo del post classico. Cioè quella strada che con sapienza, artisti di teatro hanno cominciato a percorrere e che torna a studiare profondamente i classici e i miti, la cosiddetta letteratura universale, li destruttura, li interroga, cerca domande da mostrare e fare al pubblico, lo attualizza. Come in qualche modo fece l'Hamletas di Nekrosius circa vent'anni fa, pochi anni fa lo straordinario Orfeo e Euridice di Romeo Castellucci e, oggi l'Orestes in Mosul di Milo Rau. O a Lugano anche la tua Ifigenia, liberata e il tuo Macbeth.

Carmelo Rifici

Credo che le carte sul tavolo siano tutte scoperte. Negli ultimi trent'anni il teatro di ricerca ha tentato di distanziarsi dal grande teatro di regia, sperando di spezzarlo dall'interno, così come il teatro di regia ha cercato di mantenere un’egemonia. Oggi non è più così, sappiamo che necessitiamo di regia e ricerca, necessitiamo di artisti che utilizzano il teatro come una lente, e non più solo sul mondo. Oggi siamo convinti che la lente sul reale apra strade di possibili indagini anche sul trasparente, su ciò che non appare. I classici ci aiutano in questo, ma non come materiale letterario fine a sé stesso. I classici oggi vanno considerati esattamente come le ossa dello scheletro dei nostri avi rinvenute da un antropologo, che prima di definire provenienza e genia, deve spolverarle con cura, accostarle ad altre ossa, fare ipotesi, immaginarsi scenari, creare storia. Il teatro così torna a ragionare sul tempo, su un tempo complesso e non lineare.

Paola Tripoli

Ragionamenti che ci hanno portato anche a discutere sui tempi che viviamo. E come in questi tempi, si sia perso il valore del simbolo. In teatro, nell'arte, nell'architettura. Leggevo qualche tempo fa un bell'articolo di Marco Biraghi sull'architettura dei memoriali. A proposito delle Torri Gemelle lui parla di Ground Zero dell'architettura. I progettisti del memoriale di New York si sono confrontati con il tema dell'assenza. Tuttavia - cito Biraghi - vi è un’altra assenza, non meno vistosa – e forse anche più significativa – che va rilevata, e su cui credo valga la pena riflettere: si tratta dell’assenza di qualsiasi “iconografia” capace di rendere emblematico in modo eloquente l’evento al quale il luogo è dedicato, ovvero l’assenza di qualsiasi capacità simbolica da parte dell’architettura chiamata a rievocarlo. E' come se l'architettura, per mano dei suoi artefici, sia oggi incapace di assumersi impegni simbolici, tanto da parlare una lingua che fatica a farsi comprendere, e come - dice Biraghi - si arrivi ad un ground zero della rappresentatività simbolica dell’architettura. Forse l'ultimo esempio riuscito in quest'ambito sono le pietre d'inciampo di Gunter Demnig. Teatro e simbolo è il tuo mondo....

Carmelo Rifici

Come potremmo vivere senza simbolo? E' una domanda che mi pongo quotidianamente. Bisogna decidere innanzitutto se qualunque forma del contemporaneo sia necessaria, oppure distinguere le forme necessarie da quelle solo formali, e anche su quest'ultime fare delle serie considerazioni per compenetrarle e consegnarle al pubblico. Concordo con Agamben quando dice che l'artista contemporaneo non è colui che sta nel tempo attuale, ma colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo. A mio avviso la contemporaneità si iscrive nel presente innanzitutto come arcaico, in quanto arcaico significa prossimo all'origine. L'origine non è un tempo cronologico, non sta in un passato storico, anzi, l'origine, e quindi il simbolico, è contemporanea in quanto non cessa mai di operare. La chiave del moderno è nascosta nella preistoria e nella mitologia, il vero teatro contemporaneo non può che essere la parte ancora non vissuta in ogni vissuto, che si muove in noi ancora come eredità simbolica. Bisogna riflettere attentamente sugli effetti di un teatro contemporaneo che cessa di interrogare il simbolo perché lo giudica troppo legato al contenuto, ad una visione novecentesca.

Paola Tripoli

Ma anche su un teatro contemporaneo che sia portatore di contenuto, attraverso il testo o la forma o il contenitore. Un teatro come luogo per costruire o ricostruire l'anima.

Carmelo Rifici

Sono cadute le barriere tra forma e contenuto, questo è mi è chiaro. Non sono ancora così certo però che si sappia esattamente cosa comporti questa perdita di confine. Possiamo anche ammettere che l'abbattimento di una barriera porti una maggiore autenticità, dobbiamo però anche essere consapevoli della trappola. L'arte facilmente si stringe attorno ad un progetto, riesce a trasformare una scoperta in un prodotto da replicare.

Paola Tripoli

Le parole delle riflessioni sul contemporaneo: realtà e finzione a teatro. Uso un termine di Sergio Blanco (autore, regista e attore uruguaiano presente al FIT 2020) che parla di "patto con la menzogna". L'esperienza artistica è dare vita ad una menzogna: anche le forme più autobiografiche lo sono.

Carmelo Rifici

Allora mi chiedo che cosa sia effettivamente cambiato rispetto al passato… Ci è sempre stato chiaro che il testo fosse una bugia, solo che si preferiva usare la parola Metafora. Il testo era una bugia ma anche una metafora sull'umano, stava agli attori riuscire ad incarnare quella metafora e trasformarla in una realtà. Cosa ha scoperto il teatro contemporaneo? Che la Metafora è solo menzogna? Non è un modo riduttivo di guardare alle possibilità della letteratura? Torno alla domanda iniziale, siamo così certi che alcune intuizioni del contemporaneo non siano in qualche modo inquinate da un'idea di contemporaneo? Mi chiedo perché si debba sottolineare che l'autobiografia sia comunque un autofinzione, che in fin dei conti sia tutta drammaturgia. Mi sembra strano che il teatro documentario e biografico, nato per distruggere la finzione del teatro testuale e narrativo, voglia infine approdare ad una sconcertante verità, che esso stesso è frutto di una finzione. Allora mi pare che il problema sia un altro, e anche questo dibattuto da secoli, non è un problema tra verità e finzione, il vero conflitto è tra finzione e fasullo, tra artificio e artefatto. Lì si gioca la vera partita.

Paola Tripoli

La riflessione da cui non possiamo prescindere: il ruolo dello spettatore. Trovo che Rancière abbia già detto tutto quando parlava di "spettatore emancipato". L'emancipazione di cui è portatore lo spettatore, passa per lo sguardo e la passività, per un diverso uso delle capacità di percepire che sono di ciascuno e la possibilità di tradurre in pensiero o in azione anche ciò che si guarda senza conoscere. Una comunità emancipata è una comunità di cantastorie e di traduttori. Lo spettatore è colui che si avventura nel caos delle cose e dei segni per dire ciò che ha visto e cosa ne pensa. Con Rancière si pone fine a tutta quell’idea del teatro inteso come comunità in sé: il suo potere non deriva da una maggiore interattività (nella deriva del teatro partecipativo) ma dalla capacità di ciascuno di operare liberamente su ciò che percepisce, traduce e collega alla propria esperienza intellettuale. Viene meno il paradosso dello spettatore tra una presunta passività “classica” e la richiesta “moderna” di una certa attività, entrambe ingannevoli.

Carmelo Rifici

Sono d'accordo. E' triste ma è così, non esiste una comunità teatrale, esistono degli individui che entrano in una spazio dove un gruppo di artisti proporrà loro una esperienza. Non riferendoci ad un pubblico, ma ad uno spettatore, il nostro dovere etico nei suoi confronti è enorme. Dobbiamo rispettare la sua scelta di essere venuto in teatro, nonostante tutto, non sappiamo né come ci sia arrivato, né come ne uscirà e se tornerà. Però non possiamo essere disonesti con lui, abbiamo l'obbligo di porlo al centro di un'esperienza di significato. Starà poi a lui scegliere se districarsi, abbandonarsi, criticare, o lasciare l'esperienza. Il suo compito non è facile, anche perché lo spettatore è sempre meno consapevole.

Paola Tripoli

Carmelo, ma dopo dopo aver conosciuto "il virus che rende folli", come lo chiama Bernard-Henri Lévy (con cui non sono sempre d'accordo) bisognerà che il mondo ma anche l'arte e il teatro che vive nel presente, quindi contemporaneo, recuperi un'idea di mondo e di vita più complessa. Guardando più in là. Sei d'accordo?

Carmelo Rifici

Sono anche qui d’accordo, il problema è come riuscirci. La complessità dell’essere umano è un fatto, ma che l’essere umano si comporti in modo complesso è discutibile. E’ una società del prodotto la nostra, che parla attraverso una grammatica semplificatoria. L’arte può essere un antidoto? Veramente me lo chiedo. Posso in cuor mio solo confermare la mia volontà di direttore e di regista di non arrendermi, posso solo immaginare di continuare, insieme a te, a scegliere con cura gli spettacoli e le performance che creano discorsi complessi, e di proporli con umiltà ma anche con coraggio e costanza ad uno spettatore per volta. Voglio però credere ancora nelle parole di Jung quando affermava che ci sarà una reazione contro la dissociazione collettiva. L’uomo non sopporta all’infinito il proprio annullamento, prima o poi reagirà contro la mancanza o l’assenza di senso. Secondo Jung l’uomo non può fare a meno del senso e lo cercherà. E’ una speranza ovviamente. Il mio dubbio è sulla nostra incapacità di maturare la storia. Oggi sappiamo che la storia, come noi la conosciamo, non esaurisce il nostro desiderio di sapere e di conoscere, ma che di fronte alla inesauribilità della conoscenza, l’uomo si è terrorizzato, rifugiandosi nel conforto del realistico, del finito e del prodotto. La sfida che ci poniamo è alta, ma il pericolo in cui incorriamo non accettandola è troppo rischiosa.

Carmelo Rifici, Direttore artistico LAC

Paola Tripoli, Direttrice artistica FIT Festival

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