di Riccardo Favaro
La mia riflessione non può che muovere da una considerazione preliminare: il momento in cui ho iniziato a lavorare come drammaturgo coincide con quello in cui ho iniziato a interrogarmi sul significato della dicitura “scrittura contemporanea”. Così, sulle prime battute, anche io mi sono accontentato di pensare che il termine contemporaneo prefigurasse in qualche modo una chiamata alle armi, un’assunzione di responsabilità chiesta ad autori (o più genericamente ad artisti) volta a tutelare l’attinenza tra la propria opera e le condizioni del mondo in cui nasce. E certamente il fronte europeo che si apre in questo nuovo ventennio lascia intravedere una complessità che difficilmente potrà essere esclusa dalle preoccupazioni dello scrivere. Ad ogni modo, è stato abbastanza naturale indagare ulteriormente la questione, anche sulla scia di molti canali critici e accademici che hanno spinto in tal senso (ne sono esempio lampante le considerazioni di Agamben). Per questo viene da chiedersi: che ne sarà invece delle sorti di una scrittura la cui vocazione contemporanea non è solo, per così dire, materialistica (o orizzontale) ma anche e soprattutto poetica? Si tratta di una differenza non di poco conto, quella tra essere contemporaneo e rendere contemporaneo. Che cosa può voler dire? Come possono le intenzioni e la pratica, agli occhi di un lettore così come di uno spettatore, coesistere e generare una drammaturgia autenticamente figlia del nostro tempo? E, soprattutto, quale respiro storico potrà mai avere?
Backstage di Una Vera Tragedia (2020)
Le domande in questo senso si moltiplicano. Certamente io non sono un teorico. Sono uno scrittore, un autore (peraltro il più delle volte annunciato come “giovane”) e dunque non posso che pensare che la risposta debba essere personale, unica e non necessariamente condivisibile. Vorrei evitare in tutti i modi di polarizzarmi in quel campo che non conosce mediazione tra formalismo e moralismo, tra esigenze estetiche ed esigenze romantiche. Così sento l’esigenza di ritornare a me, alla mia esperienza, al mio legame con il mondo culturale in cui mi sono formato. Sono nato e cresciuto a Treviso, un centro piccolo ma prezioso, con un patrimonio territoriale ricchissimo (e non solo legato all’immaginario delle residenze estive veneziane di goldoniana memoria). Verso i confini della provincia, quasi alle pendici del Monte Grappa, c’è Possagno, un piccolo comune che oltre ad aver dato i natali ad Antonio Canova ne ospita la Gipsoteca, il Museo e il grande Tempio da lui progettato. Ed è proprio su Canova che voglio fondare la mia riflessione: non su teatranti o scrittori, ma su un artista decisivo per la mia formazione (a lui è anche intitolato il liceo classico che ho frequentato) e che più di chiunque altro rappresenta per me la faticosa ricerca di una sintesi tra regola e bellezza. Il paradosso, legandomi proprio a quest’ultimo aspetto dell’opera di Canova, è che se si osserva e si studia il suo processo di lavoro, certificato e minuziosamente elaborato nel corso di tutta una vita, pare evidente che prima dell’approdo al marmo si snodasse una catena di fallimenti strutturali. Non si tratta solo di fasi preparatorie ma di una vera e propria narrazione di insuccessi programmati. A partire dal disegno, totalmente svincolato dall’idea di realizzazione finale della scultura, passando per bozzetti in argilla o in gesso, fino alla prima fase del modello in argilla a grandezza naturale. É un modello che nasce per essere distrutto, funzionale solo alla creazione della forma (un primo involucro di gesso che ricopre l’argilla). E anche la stessa forma nasce per essere distrutta, una volta riempita di altro gesso liquido che costituisca la base per un nuovo scheletro di lavoro.
Backstage di Una Vera Tragedia (2020)
E così, passo dopo passo, materiale dopo materiale, tutto l’iter prevede opere provvisorie il cui concepimento coincide con la necessità del proprio annientamento, fisico o ideale che sia. Si potrebbe dire, forse, che ogni fase di lavoro è un’eccezione, nel senso etimologico del termine: eccede ciò che viene prima, ne impedisce la replica, lo supera e al tempo stesso sa di dover essere superato. Così tutto il percorso, fino alla compiutezza del marmo che dovrebbe farsi canone, vive di una profonda, insanabile e metodica contraddizione: per aspirare a non avere tempo bisogna incontrare la morte in continuazione, senza sosta, senza rimedio. E se ancora oggi è possibile ammirare i gessi del Canova (la Gipsoteca monografica di Possagno è tra le più importanti del mondo), è chiaro che il risultato finale non sia l’unico possibile. Perché i gessi di Paolina Borghese, delle Tre Grazie o del meno conosciuto studio su George Washington, per citarne alcuni, preservano ancora oggi la loro vocazione all’imperfezione, alla distruzione, all’oblio. E tutto questo, ai miei occhi, trasforma la fisiologica paralisi della scultura in materia viva e perennemente irrisolta, perennemente compromessa, costantemente asservita ad una caducità con cui ancora oggi è possibile entrare in dialogo.Credo che questa apertura sull’opera di Canova non sia altro che una guida, a sua volta un modello, per ragionare sulla direzione del mio lavoro. Del resto, nessuna parola è casuale. Creare, riempire una forma per poi rinunciarvi, trasformarla in altro, ripensare i materiali: la natura contemporanea della scrittura teatrale si manifesta così non come pura ricerca formale o pura aspirazione umanista, ma come uno sforzo indissolubilmente connesso alla scena, intendendo la scena come il luogo della morte per eccellenza. Se si scrive anche per essere dimenticati, oggi, non ci si può più permettere di ambire ad un respiro ulteriore, magari letterario. La missione deve essere più grande, più importante, più spaventosa: trovare le parole giuste da mandare in frantumi, trovare le parole migliori per permettere al teatro di preservare la propria continua trasformazione. É una prospettiva faticosa, soprattutto in un mondo in cui capita che le eccezioni più diffuse non siano stati di pensiero ma merci, beni di consumo, applicazioni e sistemi operativi. Anch’essi nascono per essere superati dalla propria evoluzione, dai propri aggiornamenti, da altri prodotti, in continuazione. Ma non contemplano mai la morte, anzi: sono la punta emersa e visibile di un’unica potenza illimitata. Per me il varco va cercato qui, nella desolazione di un mondo che rifiuta la contraddizione per non concepire la propria distruzione. Questo è il punto a cui sono giunto, riflettendo su come si possa scrivere contemporaneo.