martedì 21 gennaio

Sala Teatro
Da 27.- a 39.- CHF

mercoledì 22 gennaio

Sala Teatro
Da 27.- a 39.- CHF

Andrea Chiodi porta in scena l’ultima opera di Molière, Il malato immaginario, tra i testi più fortunati e autobiografici del celeberrimo drammaturgo francese, di cui sono protagonisti Lucia Lavia e Tindaro Granata, insieme ad un cast di ottimi interpreti. Scritta nel 1673, anno della scomparsa del suo autore, la commedia – o meglio comédie-ballet – è un attacco ai medici, fatto che testimonia l’odio viscerale di Molière per la categoria.

“Molière – scrive Giovanni Macchia, tra i francesisti più autorevoli del Novecento – è uno scienziato delle nevrosi”. È un uomo malato, che teme di morire, ma che sa anche che ridere e far ridere è una difesa contro quelli che erano i suoi stessi mali: la gelosia, il dolore, l’ansia, la malinconia. C’è, dunque, dietro commedie che sembrano fatte di comicità persino farsesca, l’ombra di un autoritratto, un gioco – dice Macchia – “tra assenza e presenza”. 
Un lavoro onirico e irriverente, divertente e contemporaneo, in cui Andrea Chiodi si affida all’adattamento e alla traduzione di Angela Demattè, compagna di lavoro e di vita, nel portare in scena le vicende familiari dell’ipocondriaco Argante, circondato da medici inetti e furbi farmacisti, ben felici di alimentare le sue ansie per tornaconto personale. Come l’avaro Arpagone, Argante è vittima di se stesso e burattino di chi gli sta intorno, prigioniero della sua stessa paura, un’ossessione – l’ipocondria – che in questa nuova versione del capolavoro di Molière diventa piena protagonista.

“La mia esplorazione e curiosità per questo testo – dichiara Chiodi – inizia da questa battuta di Molière: ‘Quando la lasciamo fare, la natura si tira fuori da sola pian piano dal disordine in cui è finita. È la nostra inquietudine, è la nostra impazienza che rovina tutto, e gli uomini muoiono tutti quanti per via dei farmaci e non per via delle malattie’. Una visione che fa un po’ paura, ma che, allo stesso tempo, mi intriga moltissimo.”

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di
Molière

adattamento e traduzione
Angela Dematté

regia
Andrea Chiodi

con
Tindaro Granata
Lucia Lavia 

e con
Angelo Di Genio
Emanuele Arrigazzi
Alessia Spinelli
Nicola Ciaffoni
Emilia Tiburzi
Ottavia Sanfilippo

scene
Guido Buganza

costumi
Ilaria Ariemme

luci
Cesare Agoni

musiche
Daniele D’Angelo

consulenza ai movimenti
Marta Ciappina

produzione
Centro Teatrale Bresciano

in coproduzione con
LAC Lugano Arte e Cultura
Viola Produzioni Roma

“Io sono il malato!”, così grida Argante al fratello Beraldo e alla serva Tonina. Mi sono chiesto se questo non fosse il grido disperato di un autore teatrale che, mentre scrive, si sente messo da parte, ridicolizzato dalla società, non più di moda e, nel caso di Molière, non più accettato a corte.
Con questo lavoro ho cercato di mettere in scena questo grido disperato, il grido di un artista, la domanda di chi cerca di far capire a chi parla la sua arte, il suo teatro, fino a morirci dentro, fino a decidere di essere malato per proteggersi dalla durezza della realtà. L’abbiamo fatto con il testo integrale e fedele, con la sola aggiunta della supplica di Molière al Re a cui domanda: “Allora ditemi sinceramente, mio sovrano Signore, se volete che io scriva ancora delle commedie. Io non voglio dar fastidio a nessuno. Preferirei morire piuttosto che pensare che il teatro di Molière disgusta tanto da detestare il solo sentirlo nominare”.

Il malato immaginario arriva alla fine di un periodo complesso per Molière: come in una corsa al massacro sociale si sposa con una donna che potrebbe essere sua figlia (e tanti pensano lo sia davvero), scrive opere sempre più scomode (subendo costantemente gli strali delle categorie che prende di mira: tartufi, misantropi, avari…) ed entra in conflitto con il musicista beniamino del re, Gianbattista Lulli. In questo stato scrive per sé il personaggio di Argante, malato immaginario. Come scrive Cesare Garboli: “La malattia di Argan soccorre il malato come un sedativo. Lo soccorre nel profondo bisogno di non esistere, di addormentarsi, di assentarsi, finché tutta la vita sia risucchiata dal nulla. Se la vita è male, asserisce Argan, si può viverla solo se si è ‘malati’, o si è irresponsabili e ciechi. Argan difende un asilo innocente, il suo diritto all’infanzia.”
Mi sembra che l’autofiction in cui tutti noi esseri umani siamo caduti da qualche tempo, questo nostro rappresentarci continuamente anche nei nostri malanni più intimi, sia molto simile alla malattia di Argante/Molière.
Vogliamo mostrarci malati, immolarci, morire in scena per trovare disperatamente qualcuno che ci accudisca, compatisca, perfino che ci derida o che ci odi: cerchiamo un qualsiasi sguardo genitoriale che ci permetta di esistere. Il re Luigi/padre sta già sostituendo Molière con un nuovo musicista/figlio, più furbo, leggero e di moda e – paradossale – con il suo stesso nome: Gianbattista. Molière non sarà più il commediante del re.
Quello di Argante/Molière è un ultimo, disperato sforzo. Morendo, Molière ci deve aver detto qualcosa d’essenziale, di vicinissimo a noi. Si esiste solo se si è guardati. Si muore, talvolta, per esistere. 

Foto di scena

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