Evento passato

13 giugno 2024

Sala 1

10:30

È possibile possedere storie, idee e gesti?
Stories We Perform/Own/Share/Space è un tentativo di riflettere sugli scivolosi confini tra trasmissione, proprietà e libero scambio di idee e movimenti nei processi artistici basati sul corpo. Insieme agli ospiti invitati, ci confronteremo con esperienze ‘scomode’ e condivideremo buone pratiche, immaginando un ecosistema delle arti performative più equo.

Per consentire un formato più esperienziale e relazionale che parli concretamente e in modo non autoritario dei temi che intendiamo discutere, inviteremo gli ospiti a partecipare a un piccolo gioco. Il punteggio avrà un carattere collaborativo piuttosto che competitivo: non ci saranno vinti o vincitori, ma solo partecipanti disposti a imparare gli uni dagli altri mentre condividono esperienze, preoccupazioni, consigli e domande.

curated by
Lorenzo Conti 
Simona Travaglianti

devised as a score by
Ariadne Mikou
Sinibaldo De Rosa

promoted by 
Reso – Dance Network Switzerland  
LAC edu 

with 
Rhodnie Désir (creative head and general manager of RD Créations) 
Pol Esteve Castelló (architect, researcher and teacher) 
Chloé Le Nôtre (director Auditorium de Seynod / Annecy) 
Cathy Levy (international advisor Jacob’s Pillow Dance Festival) 
Ivy Monteiro (performer and choreographer) 

 

Stories We Perform/Own/Share/Space
di Ariadne Mikou e Sinibaldo De Rosa

È possibile possedere storie, idee e gesti? Cosa succede quando dei movimenti vengono eseguiti in contesti, siti e corpi diversi da quelli da cui sono nati?
Nella danza e nella pratica coreografica, i movimenti del corpo vengono trasmessi, decostruiti e reinventati, per poi spesso cristallizzarsi in un vocabolario o uno stile di danza, se non in una specifica firma coreografica.  Come osserva la studiosa Carrie Noland: ‘[...] i gesti migrano (e scompaiono) e [...] nel migrare creano combinazioni inaspettate, nuove valenze e significati, ed esperienze culturali alternative. In un mondo di ineluttabile circolazione globale, anche i gesti subiscono appropriazioni e si trasformano in nuove forme che cambiano la loro funzione iniziale’ (2008: X). Innovazioni, nuove scoperte e sensazioni corporee, forme di bricolage e fusioni sono il risultato di un processo di recupero di gesti del passato, così come del loro prestito da altre culture, contesti o tecniche corporee. Questa migrazione spazio-temporale di movimenti e gesti non è però solo una questione di ispirazione o di scambio artistico, se consideriamo che l’ispirazione non sempre nasce da un vero riconoscimento e lo scambio non implica sempre giustizia e equità in termini socio-politici. La migrazione del movimento, combinata con la disconnessione da un contesto specifico e la ricontestualizzazione sotto forma di ‘prestiti non autorizzati’, solleva la questione dell'appropriazione culturale, che consiste nel ‘prendere elementi di proprietà intellettuale, dell’espressione o degli artefatti culturali, della storia e le forme del sapere - da una cultura che non è la propria’ (Scafidi 2005:9). Sebbene l'appropriazione come forma d'arte[1] abbia il potenziale di produrre sovvertimenti politici e culturali, critiche istituzionali e contro-narrative, spesso diventa difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra apprezzamento, critica e appropriazione culturale. Quest’ultima di solito si manifesta ad un livello superficiale senza profondità nell’approccio a coloro che hanno generato la pratica, ai quali spesso non viene fatto riferimento, e che vengono quindi dimenticati o marginalizzati. La storia del colonialismo e della tratta degli schiavi è piena di esempi che testimoniano la complessità dei processi di appropriazione culturale, i quali di solito coinvolgono dinamiche di potere unidirezionali: chi è in una posizione di privilegio - di solito, un bianco - prende in prestito da chi è stato colonizzato o da una minoranza al fine di usare questo materiale in modo decorativo, speculativo, se non razzista.

Il repertorio del balletto è pieno di prestiti asimmetrici. Si pensi ad alcune opere del XIX secolo come La Bayadère e Le Corsaire, ispirati rispettivamente alle culture indiana e ottomana, o anche a Lo Schiaccianoci, che utilizza rappresentazioni nazionali stereotipate nei divertissement dell'ultimo atto. Nella frenesia delle fantasie orientaliste che hanno caratterizzato la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, anche alcuni tra i pionieri americani bianchi della danza moderna, come Ted Shawn e Ruth St. Denis, hanno fatto ricorso alle tradizioni non occidentali come prova del loro apprezzamento per l’“Oriente”. Quest’ammirazione ha poi aperto le porte per il successivo invito ai danzatori stranieri a esibirsi sul palco dello Jacob's Pillow, introducendo così generi di movimento fino ad allora poco noti a quel pubblico.

La cultura popolare è d’altronde piena di ‘prestiti non autorizzati’; si pensi ad esempio all'hip-hop, che è stato spesso eseguito imitando posture e movenze rimosse del loro contesto originario. La studiosa di danza Rosemarie Roberts (2013) ha analizzato criticamente la circolazione dei movimenti nella danza hip-hop, discutendo come i processi di incorporazione dei neri siano stati normalmente teorizzati in maniera inadeguata, o siano messi in un angolo, piuttosto che riconosciuti come siti di produzione del sapere. Anche nell'industria musicale diversi generi di danza vengono appropriati e commercializzati - discorso che viene ulteriormente complicato se si considera la diseguaglianza nei ricavati economici a seconda della posizione dell'individuo o dell'istituzione al potere. La cantante pop americana Madonna ha fatto un ampio uso di sequenze di Voguing nel video musicale di Vogue (1990), un successo mondiale che ha promosso questo stile, se non gli artisti queer neri e ispanici che lo praticavano nelle ballroom di New York. Ma questa operazione di appropriazione culturale veicolava comunque il ruolo di potere di Madonna, donna bianca e abbiente che ‘si pone in una posizione di controllo e al centro dell'immaginario musicale e della danza’ (Dodds 2009: 256). Nel 2011, un'altra icona americana, Beyoncé, nel video musicale di Countdown si è appropriata di sequenze di Rosas danst Rosas (1983) e Achterland (1990) della coreografa sperimentale Belga Anna Teresa de Keersmaeker, e dei loro adattamenti cinematografici. Sebbene Beyoncé abbia capovolto le convenzioni razziali nella storia dell'appropriazione culturale, Countdown rimane un raro esempio di un’affluente artista nera che prende da un’artista bianca, e di una forma d'arte popolare che si appropria di un fenomeno d'avanguardia nel contesto di uno squilibrio economico. Anche il campo della danza contemporanea è intriso di queste dinamiche di prestito. Il coreografo Joshua Monten fa notare quanto tra le strategie più comuni nella coreografia postmoderna ci sia ‘quotare direttamente stili disparati, assemblare spettacoli di danza in maniera eclettica, prendere liberamente da varie fonti’ (2008: 52). Tuttavia, se vogliamo fare spazio per uno scambio di movimenti, storie e idee che sia più etico e multi-direzionale, resta vitale occuparsi dei fenomeni che esercitano una qualche forma di appropriazione culturale e approfondire la loro ricognizione con occhio critico. A questo proposito, la tavola rotonda Stories We Perform/Own/Share/Space è un tentativo di riflettere sugli scivolosi confini tra trasmissione, proprietà e libero scambio di idee e movimenti nei processi artistici centrati sul corpo.

Come parlare dei prestiti interculturali senza eccessive semplificazioni e della loro inevitabile associazione con l’appropriazione culturale? Come contribuire a una discussione su questi temi rimanendo consapevoli dei privilegi di cui godiamo nella nostra posizione di bianchi europei al lavoro nell'ambito di un festival internazionale di danza contemporanea nel cuore prospero dell’Europa?
Per cercare di rispondere a queste e ad altre domande in modo da sfidare i modelli gerarchici nello scambio dei saperi, abbiamo concepito questa tavola rotonda come una partitura coreografica in modo da proporre un format che dia più spazio alle esperienze e alle relazioni, e che inviti a pensare in una maniera intersezionale. Sviluppando questa partitura a partire da un semplice gioco di carte, desideriamo dare spazio a una componente ludica e fortuita che suggerisca un modo per sfidare dinamiche di potere profondamente radicate. Riteniamo che il carattere collaborativo di questo format risponda in modo concreto e non autoritario ai temi che ci proponiamo di discutere. Condividendo esperienze, preoccupazioni, consigli e domande, speriamo di riuscire a confrontarci con esperienze scomode e di condividere buone pratiche, mentre immaginando insieme un ecosistema delle arti dello spettacolo più sano e equo.
 


[1] Per esempio, il collage e il fotomontaggio, i ready-made di Marcel Duchamp, l'utilizzo di prodotti di consumo da parte di Andy Warhol e le idee di Guy Debord sul détournement. 

 

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