Georges Feydeau ha segnato un passaggio importante nella storia del teatro, e nonostante commedie ben scritte, come La pulce nell’orecchio, siano sempre state destinate ai palcoscenici di intrattenimento, ritengo che il LAC, alla stregua di teatri d’arte come la Comédie Française, che ha inserito Feydeau e Labiche nel proprio repertorio classico, debba confrontarsi con testi e autori maldestramente ignorati dal teatro di regia.
Il vaudeville, infatti, è sempre stato considerato un genere minore e veniva allestito principalmente dai teatri privati, al fine di favorire repliche e incassi. Sentendosi emarginato dagli intellettuali del suo tempo, Feydeau, con grande lungimiranza, rispondeva alle critiche che gli venivano mosse affermando che il teatro rispecchia la vita. La Pulce, pur partendo da un episodio apparentemente banale come quello del ritrovamento di un paio di bretelle da parte di una moglie che crede di essere tradita, è un testo che affronta temi che riguardano tutti noi. Feydeau ci introduce a degli accadimenti che solo superficialmente concernono la nostra quotidianità, bensì ci invita a fare un passo ulteriore verso un’umanità più complessa e interessante che deve confrontarsi con il bisogno di surreale e di follia all’interno delle relazioni. I suoi personaggi rispecchiano la società di inizio Novecento e, contemporaneamente, sono portatori di una fantasiosa pazzia. Per condurre il pubblico nella sua visione di realtà, Feydeau utilizza una macchina scenica “matematica” grazie a cui, all’entrata di ciascun interprete, la follia si moltiplica, facendo sembrare il protagonista appena entrato quasi al limite del naturalistico. Un meccanismo che, sommandosi, fa in modo che ogni personaggio appaia più folle e surreale di quello che lo ha preceduto.
Non è una pochade, è una vera e propria esperienza: Feydeau invita lo spettatore ad aprire metaforicamente delle porte per entrare nella sfrenata fantasia che caratterizza l’essere umano fin dalla sua nascita e che, crescendo, si tende a trascurare. Il teatro di Feydeau non è solo una macchina comica, ma svela i desideri più reconditi di ciascuno di noi: primo fra tutti, quello di trasgressione.
Questa commedia sofisticata è molto divertente. I personaggi vivono esperienze irreali che solo nei sogni possono avvenire; per far sì che ciò accada, Feydeau sposta l’azione dalla casa borghese, in cui si apre la vicenda, ad un albergo a ore, dove ci si incontra furtivamente per poi tornare nella serenità del proprio focolare. Hotel Feydeau è un albergo che non assomiglia a quello che si è soliti immaginare come “albergo del libero scambio”, bensì a un luogo misterioso e fuori misura, come sottolinea la battuta pronunciata dalla cameriera Maria Antonietta: “Questo non è un albergo, è un manicomio”. Eppure il manicomio, il caos che si scatena nell’albergo è solo apparentemente mentale, in realtà è un caos linguistico.
Negli anni, il mio lavoro si è focalizzato in modo sempre più ossessivo sul tema del linguaggio e sulle sue ambiguità. La pulce nell’orecchio affronta il rapporto tra lingua, potere e relazioni umane, tematiche con cui mi sono già confrontato più volte grazie al teatro classico e al dramma borghese, ma lo fa leggendole attraverso la lente d’ingrandimento del grottesco.
Il linguaggio di Feydeau è prepotente, tendente alla caricatura. I personaggi non si capiscono tra di loro in quanto ognuno è caratterizzato da una propria “lingua teatrale”. Un problema di comunicazione che non ha nulla a che vedere con i tormenti cechoviani dell’incomunicabilità (a quell’epoca, infatti, Cechov aveva già scritto i suoi capolavori sulla non comunicabilità). Un esempio su tutti è Camillo, personaggio che, non avendo il palato, non riesce a pronunciare le consonanti ed è costretto ad esprimersi solo con le vocali, dando vita a una serie di equivoci non privi di conseguenze.
Per ovviare a questo problema, Feydeau fa entrare in scena il Dottore facendogli dire: “Che cosa vi impedisce la facoltà di parlare? Un vizio congenito, la volta del palato che non ha avuto il tempo di formarsi come avrebbe dovuto. Per conseguenza le parole, invece di trovare quella parete naturale che permette loro di rimbalzare all’esterno, si perdono nei condotti interni, fino a smarrirsi nelle cavità più oscure della vostra persona, ecco, vi ho portato la parete che vi manca, la porta verso la realizzazione, un palato d’argento, amico mio, come nei racconti delle fate”. Questo palato viene perso e ritrovato più volte, e il Dottore ne sottolinea l’importanza e richiama l’attenzione di Camillo affermando: “È uno scrigno, e non è da tutti possedere le parole chiuse in uno scrigno d’argento”.
Ho cercato di rispettare la vocazione del testo, consapevole che la caricatura è un’arte serissima che necessita di un pensiero; significa caricare qualcosa che conosci nei colori e nel significato, evitando la psicologia, ma anche la parodia. Consapevole di ciò, ho chiesto agli attori di rispettare i tempi e ritmi matematici dettati da Feydeau, dando vita ad una “maschera” pertinente, senza mai perdere quel respiro capace di svelare i lati più sinistri e macabri della commedia. Come le grandi commedie di Molière e Goldoni, infatti, anche le commedie di Feydeau scivolano, di tanto in tanto, in un’inquietudine esistenziale dalla quale, però, l’autore cerca ogni volta di fuggire. Affinché questo groviglio di leggerezza e malinconia, di sfrenata allegria e cattiveria, potesse dipanarsi davanti agli occhi degli spettatori, ho spogliato la scenografia di quell’armamentario tradizionale di camere da letto, porte e suppellettili, invitando gli attori a muoversi allegramente in un luogo infantile fatto di parallelepipedi di gommapiuma, ennesima riprova che un ottimo testo superi sempre il proprio tempo. Una scelta che ritengo rispecchi la mia vocazione al contemporaneo che mi suggerisce di rileggere i classici con la sensibilità del presente.