Appunti musicali di Diego Fasolis

“Cara Signora mia rispettabile e moltissimo amata.
Godo nell’annunziarle che la nuova opera del suo innamorato e celebre marito ha avuto un incontro quale non sarebbe stato possibile sperare migliore. Successo, trionfo, delirio, pareva che il pubblico fosse impazzito, tutti dicono che non ricordano di aver assistito mai ad un trionfo siffatto. Io ero così felice che mi veniva da piangere, pensa! Ed il mio cuore veniva verso di te e pensavo alla tua gioia se tu fossi stata presente, ma sai che io non voglio esporti ad emozioni così forti, perché s’ha un bel dire, ma sono emozioni che par di morire, quando ancora non si è sicuri dell’esito. [...]”
Alla conferenza stampa di presentazione della nuova produzione operistica 2023 a Lugano ho letto il testo della lettera che Donizetti forse inviò nel dicembre 1830, dopo la prima di Anna Bolena al Teatro Carcano di Milano, alla moglie. Mi sento molto vicino a Gaetano, sia per la sua maniera profonda e raffinata di comporre Musica, sia per le vicende familiari e i tremendi lutti che lo colpirono.
In verità della lettera non si è trovato l’originale e molti anni dopo, quando il compositore riferisce di Milano, non cita ricordi piacevoli. Ma la vita lo aveva provato duramente.
“Senza Padre, senza madre, senza moglie, senza figli… per chi lavoro dunque”.
La forza di Donizetti, e di tanti artisti che nel dolore trovano nella musica conforto e ragione, sta nell’ispirarsi a grandi ideali di crescita morale, spirituale e di generosità per sé e per l’umanità.
Anna Bolena è il primo grande capolavoro serio su libretto di Felice Romani e con sul palco i maggiori interpreti dell’epoca (Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini). Proprio la presenza di due divi, a cui vengono affidate arie con possibili ripetizioni atte a valorizzare gli aspetti improvvisativi di virtuose variazioni, rende l’opera lunga e impegnativa per tutti i ruoli principali, per l’orchestra e per il pubblico.
Le prossime opere dedicate a Regine avranno una durata più breve.
Con una fruizione “moderna” in cui il pubblico resta seduto in silenzio (a differenza delle usanze ottocentesche in cui si entrava e usciva, si faceva vita sociale o ci si appartava nei palchi privati aprendo o chiudendo le tende a seconda del gradimento) qualche taglio si impone, ma ho deciso di essere molto parco e il più rispettoso possibile in questa operazione pur sapendo che in importanti esecuzioni storiche, anche al Teatro alla Scala, si era inciso moltissimo con le forbici.
Sulla questione dei registri e dei trasporti ho scelto di attenermi alle indicazioni della partitura.
L’Opera italiana è piena di episodi legati alle rivalità tra soprani. A un certo punto si è scelto di affidare al Soprano il ruolo principale e al Mezzosoprano il ruolo dell’antagonista (un esempio per tutti, Norma di Bellini). Ma se Giuditta Pasta disponeva di un ampio registro di soprano anche nel grave, Elisa Orlandi e, specialmente, in seguito Giulia Grisi nel ruolo di Giovanna Seymour erano soprani. Ho deciso di affiancare a Carmela Remigio (che per questo ruolo che ha fatto profondamente suo ha ricevuto il premio Abbiati) l’ottima Arianna Vendittelli. Nel ruolo di Enrico VIII ci sarà il debutto di Marco Bussi, che ha di recente magnificamente cantato con il Coro della RSI in Ticino il Requiem donizettiano dedicato a Bellini; uno dei migliori tenori del momento, Ruzil Gatin, affronterà l’impervio ruolo di Riccardo Percy eseguendolo quasi totalmente nelle acutissime tonalità originali. Gli altri ruoli sono impersonati da solisti di notevole fama, come Paola Gardina che incarna uno Smeton di grande forza e Luigi di Donato per un Lord Rochefort di gran lusso (e copertura di Enrico VIII), così come il Sir Hervey di Marcello Nardis.
Con questa produzione l’Associazione I Barocchisti, che si occupa dell’omonima orchestra barocca e del Coro della RSI, vara una nuova compagine strumentale dal nome “I Classicisti”; vi confluiscono musicisti che hanno passione per le esecuzioni su strumenti storici, dispongono dell’esperienza e degli strumenti necessari per affrontare il repertorio del primo Ottocento, sotto la guida del violino di spalla storico Duilio Galfetti.
La grande impresa di Norma con Cecilia Bartoli, le registrazioni e i concerti rossiniani a Salisburgo, Il barbiere di Siviglia a Lugano o l’integrale delle Sinfonie di Beethoven (per la catena televisiva franco-tedesca si è rappresentata la Svizzera con l’esecuzione al LAC della Pastorale) hanno attirato l’attenzione internazionale sul centro di produzione basato alla RSI di Lugano-Besso; ci è stato persino chiesto di ripetere l’esperienza con la Messa di Giacomo Puccini in vista del centenario della morte. Uno sviluppo naturale sulla via delle esecuzioni storicamente informate che altri direttori e complessi “barocchi” hanno seguito (Harnoncourt, Gardiner, Savall, Brüggen, Dantone, Antonini) e che suscitano quell’interesse che migliaia di compagini “moderne” non riescono sempre a stimolare.
Anna Bolena, a partire dall’importante ouverture, è un banco di prova straordinario per noi e per il pubblico. Il Barbiere rossiniano ha riaperto la strada dell’Opera nella Svizzera italiana e Anna Bolena dà avvio alla collaborazione con altri teatri (Modena, Piacenza, Reggio Emilia). Unire le forze è la sola via per poter affrontare in maniera razionale l’impegno di tante persone e i costi che una messa in scena operistica sempre comporta. Atteggiamento che sembra, in maniera inspiegabilmente autolesionistica, mancare in Ticino, ma che si spera possa prendere piede.
Un grazie quindi a Carmelo Rifici, a Michel Gagnon, alla RSI e alla Città di Lugano per mostrare la retta via.

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Note di regia di Carmelo Rifici

La bellezza di quest’opera, ciò che di questa Bolena mi ha affascinato e sedotto, sta nella sua capacità ed elevatezza drammatica. Il libretto di Felice Romani non è solo di grande supporto alla musica, qui magistrale, di Donizetti, ma per la prima volta riesce a creare, insieme alla musica, un personaggio tragico a tutto tondo: Anna, vero fulcro drammatico di tutta l’opera, di una forza espressiva mai raggiunta in precedenza dal Romani. Non solo: la precisione psicologica dei personaggi, la capacità drammatica dei duetti, l’introspezione, così puntuale nel percorso che conduce Bolena fino alla morte, grazie alla sorprendente cabaletta, rendono quest’opera quasi unica. Sicuramente un punto di arrivo per lo stesso Donizetti. Quest’opera è per un regista una sfida davvero interessante. Fuori dalle opere cosiddette “conosciute” dal grande pubblico, in assenza di arie famose, la via crucis di Bolena si dispiega davanti ai nostri occhi in tutta la sua “oggettiva coerenza drammatica”. Qui bel canto e interpretazione magicamente si sposano.
Ascoltando l’opera non mi era possibile rinunciare ad un’immagine dinamica dello spettacolo.
La musica stessa sembra trasportarti in un mondo dove tutto di muove, senza sosta; nonostante i lunghi duetti, anzi proprio grazie alla lunghezza delle sezioni della partitura, è possibile al regista di penetrare nei labirinti mentali e spirituali dei personaggi. La trama interiore e quella narrativa si muovono insieme. La sensazione che resta addosso ad ogni ascolto è proprio questa: il dramma si muove minaccioso verso Anna. Il dato di realtà dell’opera è quello che evita di farne la storia di una vittima, di una martire. Anna si mostra dall’inizio consapevole delle sue ambizioni e della tragica conclusione che una cieca ambizione, che soffoca desideri e amori, è destinata a subire. Anna sa che avvicinarsi troppo a quella folle, patologica mente di Enrico VIII, non solo sia pericoloso, ma ineluttabilmente catastrofico. Ma l’ambizione non si ferma di fronte a niente. L’ambizione si muove spavaldamente, frenata solo in alcuni passaggi dove l’amore fa capolino. Un tentativo troppo fragile per arrestare il mare impetuoso della cieca bramosia del potere e del desiderio.
Questo eterno movimento, questa forza inarrestabile, così sottilmente amplificata da un coro tragico che accompagna sentimentalmente la tragedia fino alle sue nefaste conseguenze, mi ha fatto immaginare uno spazio scenico minaccioso e tumultuoso. Ho immaginato uno spazio che impedisce ai personaggi di trovare protezione o conforto. Uno spazio in bilico. Voglio restituire al pubblico quella stessa sensazione inarrestabile che ho provato anche io studiando l’opera. Lo spazio non è rassicurante, ma cangiante, labirintico. Porta i personaggi alla perdizione e allo smarrimento. Allo stesso tempo non è uno spazio realistico, ma dell’anima. Le stanze che i personaggi attraversano sono stanze interiori, aprono le porte alle loro paure, alle loro pulsioni più brutali. Per questo ho evitato dettagli troppo realistici, preferendo, al contrario, immaginare oggetti e suppellettili simbolici e artistici, capaci di contenere la forza brutale del dramma, ma anche di far vivere l’esigenza sentimentale dei personaggi, il loro bisogno di amore. Le famiglie reali inglesi hanno qualcosa di carismatico, generano in noi, ancora oggi, un turbamento. La storia dell’Inghilterra, che si svolga in un dramma elisabettiano, che finisca su un rotocalco, o, come in questo caso, sublimata nella musica donizettiana, non finisce mai di interrogarci. Apre in noi la questione morale dell’ambizione, del potere e della violenza. Senza nessun desiderio di attualizzazione, non volevo però, per amplificare questa fascinazione, incastrare lo spettacolo in una forma troppo classica, troppo distante da noi, ho preferito immaginare costumi non di epoca 500esca.

Esattamente come la scena, anche i costumi devono riverberare di quella forza drammatica di cui i personaggi sono intrisi. I costumi di questo spettacolo non sono “decorativi” ma “strutturali”, nei loro colori accesi, nella forza della loro materia, nel taglio contemporaneo, hanno il compito di creare nel pubblico un immaginario universale, capace ancora di parlarci, di renderci responsabili di una vicenda umana.
Viviamo in un tempo che non ha superato l’ambizione personale, anzi, la storia contemporanea ci mostra di quanta efferatezza si nutra il potere, ancora ingordo di ingiustizie. La forza di questa Bolena, che fa della sua protagonista un monito, troppo umano per lasciarci freddi e distaccati, sta proprio nella capacità del suo creatore di immedesimazione. La musica di Donizetti, il testo di Romani, sono così intrinsecamente legati, così drammaticamente reali nella loro evoluzione, che non potevano non essere assecondati nella regia. Auguro quindi agli spettatori di abbandonarsi a quel “viaggio” cupo e passionale, a quel movimento tragico della protagonista, che rimarca, oggi più di ieri, come la Hybris sia sempre e puntualmente punita dagli Dei.

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Note di regia di Carmelo Rifici

La bellezza di quest’opera, ciò che di questa Bolena mi ha affascinato e sedotto, sta nella sua capacità ed elevatezza drammatica. Il libretto di Felice Romani non è solo di grande supporto alla musica, qui magistrale, di Donizetti, ma per la prima volta riesce a creare, insieme alla musica, un personaggio tragico a tutto tondo: Anna, vero fulcro drammatico di tutta l’opera, di una forza espressiva mai raggiunta in precedenza dal Romani. Non solo: la precisione psicologica dei personaggi, la capacità drammatica dei duetti, l’introspezione, così puntuale nel percorso che conduce Bolena fino alla morte, grazie alla sorprendente cabaletta, rendono quest’opera quasi unica. Sicuramente un punto di arrivo per lo stesso Donizetti. Quest’opera è per un regista una sfida davvero interessante. Fuori dalle opere cosiddette “conosciute” dal grande pubblico, in assenza di arie famose, la via crucis di Bolena si dispiega davanti ai nostri occhi in tutta la sua “oggettiva coerenza drammatica”. Qui bel canto e interpretazione magicamente si sposano.
Ascoltando l’opera non mi era possibile rinunciare ad un’immagine dinamica dello spettacolo.
La musica stessa sembra trasportarti in un mondo dove tutto di muove, senza sosta; nonostante i lunghi duetti, anzi proprio grazie alla lunghezza delle sezioni della partitura, è possibile al regista di penetrare nei labirinti mentali e spirituali dei personaggi. La trama interiore e quella narrativa si muovono insieme. La sensazione che resta addosso ad ogni ascolto è proprio questa: il dramma si muove minaccioso verso Anna. Il dato di realtà dell’opera è quello che evita di farne la storia di una vittima, di una martire. Anna si mostra dall’inizio consapevole delle sue ambizioni e della tragica conclusione che una cieca ambizione, che soffoca desideri e amori, è destinata a subire. Anna sa che avvicinarsi troppo a quella folle, patologica mente di Enrico VIII, non solo sia pericoloso, ma ineluttabilmente catastrofico. Ma l’ambizione non si ferma di fronte a niente. L’ambizione si muove spavaldamente, frenata solo in alcuni passaggi dove l’amore fa capolino. Un tentativo troppo fragile per arrestare il mare impetuoso della cieca bramosia del potere e del desiderio.
Questo eterno movimento, questa forza inarrestabile, così sottilmente amplificata da un coro tragico che accompagna sentimentalmente la tragedia fino alle sue nefaste conseguenze, mi ha fatto immaginare uno spazio scenico minaccioso e tumultuoso. Ho immaginato uno spazio che impedisce ai personaggi di trovare protezione o conforto. Uno spazio in bilico. Voglio restituire al pubblico quella stessa sensazione inarrestabile che ho provato anche io studiando l’opera. Lo spazio non è rassicurante, ma cangiante, labirintico. Porta i personaggi alla perdizione e allo smarrimento. Allo stesso tempo non è uno spazio realistico, ma dell’anima. Le stanze che i personaggi attraversano sono stanze interiori, aprono le porte alle loro paure, alle loro pulsioni più brutali. Per questo ho evitato dettagli troppo realistici, preferendo, al contrario, immaginare oggetti e suppellettili simbolici e artistici, capaci di contenere la forza brutale del dramma, ma anche di far vivere l’esigenza sentimentale dei personaggi, il loro bisogno di amore. Le famiglie reali inglesi hanno qualcosa di carismatico, generano in noi, ancora oggi, un turbamento. La storia dell’Inghilterra, che si svolga in un dramma elisabettiano, che finisca su un rotocalco, o, come in questo caso, sublimata nella musica donizettiana, non finisce mai di interrogarci. Apre in noi la questione morale dell’ambizione, del potere e della violenza. Senza nessun desiderio di attualizzazione, non volevo però, per amplificare questa fascinazione, incastrare lo spettacolo in una forma troppo classica, troppo distante da noi, ho preferito immaginare costumi non di epoca 500esca.

Esattamente come la scena, anche i costumi devono riverberare di quella forza drammatica di cui i personaggi sono intrisi. I costumi di questo spettacolo non sono “decorativi” ma “strutturali”, nei loro colori accesi, nella forza della loro materia, nel taglio contemporaneo, hanno il compito di creare nel pubblico un immaginario universale, capace ancora di parlarci, di renderci responsabili di una vicenda umana.
Viviamo in un tempo che non ha superato l’ambizione personale, anzi, la storia contemporanea ci mostra di quanta efferatezza si nutra il potere, ancora ingordo di ingiustizie. La forza di questa Bolena, che fa della sua protagonista un monito, troppo umano per lasciarci freddi e distaccati, sta proprio nella capacità del suo creatore di immedesimazione. La musica di Donizetti, il testo di Romani, sono così intrinsecamente legati, così drammaticamente reali nella loro evoluzione, che non potevano non essere assecondati nella regia. Auguro quindi agli spettatori di abbandonarsi a quel “viaggio” cupo e passionale, a quel movimento tragico della protagonista, che rimarca, oggi più di ieri, come la Hybris sia sempre e puntualmente punita dagli Dei.

Anna Bolena è un titolo importantissimo del panorama operistico internazionale, e il poterlo affrontare rappresenta per uno scenografo un traguardo ragguardevole. Pochi sono gli allestimenti di questa tragedia lirica che hanno fatto storia, ma rimangono impressi nella memoria collettiva.
Fortuna vuole che da studente io abbia avuto modo di conoscere colui che contribuì a riportare quest’opera in auge: Nicola Benois, scenografo della storica ed indimenticabile edizione scaligera con Maria Callas e Luchino Visconti, e il fatto di aver interloquito con un componente di quel team mi ha sempre reso “inimmaginabile” poterlo io stesso affrontare… E invece eccomi qui a scriverne.
L’impianto ideato è imponente, scenotecnicamente complesso e artisticamente ambizioso: un girevole di dieci metri incastonato in due periatti semoventi, quinte scorrevoli, porte a scomparsa, portoni girevoli, pareti a ghigliottina, e poi finestre, pertugi, corridoi… Insomma, quasi un trattato di scenografia in un solo spettacolo, una vera gioia per lo scenografo e per i macchinisti, ma anche una grande sfida.
Gli spazi sono inquietanti, danno chiaramente lʼidea che le vicende che vi si svolgono sono terribili e che i personaggi che li percorrono non possono sentirsi al sicuro. Il trattamento pittorico segue questa linea di pericolo, angoscia e senso d’oppressione, ma anche di esibizione di potere e forza: molto oro è presente, nelle sue molteplici declinazioni, da grezza materia a levigato e tagliente metallo.
Ecco quindi che per la tragica vicenda di Anna non ci si è risparmiati, proponendo al pubblico e agli artisti che la interpretano un luogo sicuramente di grande impronta visiva. Un luogo che sia anche di monito alla smisurata ambizione umana, che spesso conduce verso sentieri perigliosi…

In questa produzione abbiamo utilizzato diversi stili di illuminazione per mettere in risalto sia le emozioni dei personaggi sia l’ambientazione.
Per prima cosa, abbiamo usato luci direzionali per focalizzare lo sguardo su Anna Bolena nei momenti chiave dell’opera. Queste creano un fascio di luce delineato che disegna la figura di Anna, separandola dallo sfondo e mettendola al centro dell’attenzione del pubblico.
Oltre a ciò, abbiamo sfruttato un vasto spettro di colori per rispecchiare le emozioni in corso.
La retroilluminazione viene utilizzata per produrre effetti drammatici, specialmente durante le scene di svolta cruciali. Creando silhouette, siamo in grado di rendere le scene in modo più intenso.
Infine, utilizziamo luci soffuse per suscitare un’atmosfera onirica e astratta, che rafforza il sentimento di incertezza e surrealismo.
Ad esempio, nella scena del delirio di Anna Bolena, le luci si alternano tra fioche e violente, creando effetti di “mare mosso” che accentuano la sua instabilità emotiva. Anche nel duetto finale tra Anna e il suo accusatore, le luci creano una sorta di spettro luminoso intorno ai due protagonisti, dando un senso di estremo isolamento. Tutto ciò dà origine ad uno spazio scenico che non si limita a rappresentare la realtà, ma che ne distorce le percezioni per mostrare lo stato d’animo dei personaggi. Le luci ci aiutano quindi a comunicare visivamente le emozioni della musica di Donizetti.

Per la progettazione dei costumi di quest’opera ambientata nel 1536 sono partita come sempre da un’accurata ricerca storica. Analizzando e osservando i ritratti di Enrico VIII Tudor e delle sue sei mogli e regine, la prima cosa che viene all’occhio, oltre lo sfarzo dei vestiti, sono i colori che questi sovrani osavano indossare; si è concretizzata allora l’idea di utilizzare colori decisi e regali per vestire Anna Bolena e Giovanna Seymour, due regine, una entrante e l’altra in declino, le quali si sfidano o si confortano in duetti musicali e cromatici.
Con il team artistico abbiamo cercato non di riportare in scena un’epoca, ma di creare un mondo che evochi quell’epoca. Per quanto riguarda il costume, ci sono solo accenni di quella che era la moda nei primi decenni del 1500; più che da dettagli stilistici, il ponte tra quell’epoca e la scelta artistica è dato dalla materia: pelle, pelliccia, lane, materiali che evocano un mondo freddo ed ostile, idea che viene ripresa sia per tutto il coro degli uomini che per quello delle donne, oltre che per i solisti.
La scelta scenografica colloca l’opera in un labirinto, a tratti claustrofobico, dove la corte è in ascolto, spia e commenta, dove spesso ci si mescola alle pareti stesse, dove la società relega la pietà e la misericordia solo alle donne, che raccolgono un poco di quella grazia nella foggia semplice e essenziale dei vestiti, e rendono invece il coro degli uomini più minaccioso e aggressivo.

Cortigiane e cortigiani, donne e uomini della corte. Un insieme di persone, testimoni consapevoli ed inconsapevoli dei fatti che accadono all’interno dell’opera. Un insieme di corpi che si pongono come sostegno e sguardo dei fatti e delle vicende interiori che attraversano i personaggi, in particolare quello di Anna Bolena. Occhi esterni ed interni che osservano senza giudicare. Corpi intesi come “sfumature di colore” e pesi che occupano la tela dello spazio scenico: un corpo, un coro tragico. Carmelo Rifici mi ha chiesto di pensare al coro di Anna Bolena come a dei tableaux vivants. Lo studio e l’ascolto dell’opera, inserito all’interno degli immaginari proposti dallo scenografo Guido Buganza e dalla costumista Margherita Baldoni, fanno del mio ruolo una figura di mediazione. Attraverso il corpo degli artisti del coro e degli artisti mimi, ho cercato di trasformare, in particolari immagini pittoriche, la presenza che il coro ricopre all’interno dell’opera. I tableaux vivants, sin dalla loro nascita fino alle più recenti evoluzioni in variegate forme di performing art, traducono in vita, in corpo reale e concreto, immagini oniriche o ideali. Come all’interno dell’inconscio, dove sia il tempo che lo spazio sono in costante mutamento tanto da non esistere, così le apparizioni del nostro coro raccontano, ogni volta, in posizioni e semplici azioni, un mondo interiore fragile e appunto in continuo mutamento. Forse i mondi interiori di Bolena? Forse lo sguardo impotente dell’altro di fronte alle scelte dei singoli e della storia? Opere d’arte viventi che muovono e si muovono. Corpo e voce. Movimento e canto. Una collettività coesa, impotente ma vitale. Quadri che nascondono e svelano alla protagonista una pulsione, un dubbio, un ideale, un conflitto e, infine, una possibile realtà. L’arte che viene nascosta, le immagini che diventano un pericolo proprio come le idee, i desideri. L’arte che rimane e l’arte che viene negata possono essere metafora del conflitto interiore più grande, la scelta della propria “libertà”. Un’epoca storica, quella di Anna Bolena, in cui le idee politiche/religiose (legate sempre al potere e meno al senso umano della vita) proibiscono la raffigurazione e l’esistenza del corpo intesa come libertà e quindi pluralità e forse possibilità di scelta. Il presente o certi presenti sono così distanti? I tableaux vivants sono un’arte che appare e sparisce, che respira, proprio come le nostre vite e forse anche le idee, le passioni e il nostro essere strani animali culturali. Qualcosa di profondo, forse, è destinato a resistere e a rimanere, in una qualche memoria, per sempre.

Crediti completi

libretto di
Felice Romani

musica di
Gaetano Donizetti

interpreti
Marco Bussi, Enrico VIII
Carmela Remigio, Anna Bolena
Arianna Vendittelli, Giovanna Seymour
Luigi De Donato, Lord Rochefort
Ruzil Gatin, Lord Riccardo Percy
Paola Gardina, Smeton
Marcello Nardis, Sir Hervey

direzione musicale
Diego Fasolis

regia
Carmelo Rifici

scene
Guido Buganza

disegno luci
Alessandro Verazzi

costumi
Margherita Baldoni

movimenti scenici
Alessio Maria Romano

assistenti alla regia
Catherine Bertoni de Laet
Lorenzo Ponte
Romeo Gasparini, stagista
Massimo Marani, stagista

scenografa assistente
Valentina Volpi

costumista assistente
Federica Famà

I Classicisti

Coro della Radiotelevisione svizzera

maestro del coro
Donato Sivo

mimi (in ordine alfabetico)
Leonardo Castellani
Claudia Grassi
Lucia Limonta
Anna Manella
Alberto Marcello
Andrea Triaca

figuranti (in ordine alfabetico)
Angelo Picoco / Dog Academy Italia
Noelle Cantarelli
Alessia Massei

delegata di produzione
Nicoletta Calderoni

direttore tecnico
Pierfranco Sofia

responsabile dell’allestimento
Secondo Caterbetti

addetti di produzione
Luigi Caramia
Micol Sala

ispettore d’orchestra
Michele Patuzzi

stage manager
Igor Samperi

direttore di scena
Lorenzo Giossi

maestri collaboratori di sala
Paolo Raffo
Simone Ori
Ismaele Gatti

maestri collaboratori di palcoscenico
Luca Spinosa
Martino Ruggero Dondi

maestro alle luci
Pasquale Cardenia

movimentazione pedana girevole
Serafino Chiommino

macchinisti
Ruben Leporoni, capo
Andrea Borzatta
Luigi Molteni
Fabrizio Cosco

programmatore luci
Giovanni Vögeli

elettricisti
Noray Yildiz, capo
Mattia Gandini
Giacomo Mottini

fonici
Brian Burgan, capo
Lorenzo Sedili

attrezzisti
Roberta Pagliari, capo
Giulio Bellosi
Giovanni Ceccarelli
Noël Basso
Juan Balestra

laboratorio
Matteo Bagutti, capo
Ian Messina, stagista
Alisha Pellandini, stagista

reparto sartoria
Simone Martini, capo
Giuseppina Corbari
Andrea Portioli
Margherita Platé
Giulia-Claudia Gambi

reparto trucco e parrucco
Sofia Motta, capo
Nicola Fasulo
Ilaria Avesani
Alice Bonetti

scene 
Laboratorio “Bruno Colombo e Leonardo Richelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
NV Allestimenti

Studio Cromo snc
Laboratorio LAC

costumi
Officina Farani

calzature
Calzature Epoca

parrucche
Audello Teatro

materiale illuminotecnica
Altolighting
Auviso

servizi di assistenza, materiali tecnici e logistica
AGEvent Sagl
ABICI

Comodocks
G-Project / Piffaretti + Olivieri

coordinatore de I Barocchisti
Claudio Bianchessi

video teaser
Steve Palazzese / Justplay

foto comunicazione
Luca Del Pia
Anna Domenigoni
Agnese D’Ascanio
Irene Masdonati

foto di scena
Masiar Pasquali

videoriprese
Associazione REC

Una produzione LAC Lugano Arte e Cultura

direttore generale
Michel Gagnon

direttore artistico
Carmelo Rifici

management support
Valentina Del Fante

produzione e programmazione
Massimo Monaci, responsabile
Cristina Bartolone
Luigi Caramia
Maurizio Corradini
Stefano Cimasoni
Vanessa Di Levrano
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Micol Sala

comunicazione, immagine e digital
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Alice Croci Torti
Agnese D’Ascanio
Anna Domenigoni
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Biagio Roberto Ania
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Nicola Del Signore
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Marco Jelmini
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mediazione culturale
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Benedetta Giorgi Pompilio
Aglaia Haritz
Giada Moratti
Alice Nicotra
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risorse umane
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Eveline Silva

scenotecnica
Pierfranco Sofia, responsabile
Matteo Bagutti
Juan Balestra
Nöel Basso
Andrea Borzatta
Brian Burgan
Sarah Chiarcos
Serafino Chiommino
Mattia Gandini
Luigi Molteni
Igor Samperi
Lorenzo Sedili
Giovanni Vögeli
Noray Yildiz

facility management e progetti speciali
Marco Sorgesa, responsabile
Claudio Mantegazzi, responsabile tecnico
Dario Bassi
Blerim Kryeziu
Sergio Montorfani
Massimo Ponti

produzione
LAC Lugano Arte e Cultura

in coproduzione con
Associazione “I Barocchisti”,
RSI Radiotelevisione svizzera,
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia,
Fondazione Teatri di Piacenza,
Fondazione Teatro Comunale di Modena

in collaborazione con
LuganoMusica

project donor
Danish Research Foundation

con il sostegno di
Fondazione Lugano per il Polo Culturale

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